Julian Plenti – Julian Plenti is… skyscraper

Tira una brutta aria in casa Interpol. Aria di confusione. L’ultimo Our love to admire (2007) ha confermato la china manierista che il quartetto di New York già sembrava aver imboccato con Antics (2004), copia sbiadita del folgorante debutto, Turn on the bright lights (2002). E così, il frontman Paul Banks ha deciso di prendersi una pausa e reindossare i panni di Julian Plenti, l’alter ego con cui mosse i primi passi nella scena indie della Grande Mela a metà degli anni ’90. Is… skyscraper, però, non cancella i dubbi, affatto. Semmai pone nuovi interrogativi, ai quali, ça va sans dire, non riesce a dare una risposta convincente, causa debolezza intrinseca delle argomentazioni.

Questo primo parto solista mostra il lato più cantautorale della penna principale degli Interpol. Del resto, registrare un album puntando sui consueti riff o intrecci chitarristici sarebbe stato un azzardo senza la fida spalla Daniel Kessler, e comunque non era evidentemente quello che Paul voleva. Quello che Paul voleva, in effetti, non è che sia proprio chiarissimo. Le undici ballate qui raccolte oscillano tra elettronica e chamber-folk, puntando sul solito nugolo di ossessioni metropolitane, ma prediligendo un tono più sfumato rispetto alle taglienti progressioni tra indie-rock e new-wave degli Interpol. La confusione, però, la fa da padrona e l’impressione generale è quella di un esercizio forzato. Posta proprio in apertura del disco, Only if you run, con il suo incedere placido, è epitomica di una vaga aspirazione ad una monumentalità elegante ma non statica, ed anzi intima, eppure suona plastificata, priva di un reale baricentro. Fun that we have è invece il prototipo di una ballata stranita, cangiante, sottilmente schizofrenica: anche qui, però, il bersaglio è mancato. I motivi d’interesse, comunque, non mancano. On the esplanade e Skyscraper, mescolando picking folk ed archi, lasciano intravedere barlumi di una malinconia preziosa, che il piano meccanico dell’elegiaca Madrid song eleva a vette quasi metafisiche. Intrigante anche il mix di fiati e tastiere di Unwind, dai tratti art-rock, ma con la composta amarezza di No chance of survival o con la disco-punk di Games for days (la più interpoliana del lotto) ha poco a che spartire.

Insomma, c’è tanta carne al fuoco qui, e a Banks certo non si può rimproverare di non averci provato. Quello che gli si richiede, per il futuro, è un pizzico di sincerità in più e una scelta: i panni del bardo austero à la Peter Hammill potrebbero addirglisi, a patto che abbia il coraggio di guardarsi realmente dentro. E di riporre nell’armadio la t-shirt di Ian Curtis

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