Avevano interrotto la loro carriera nel 2000, tre anni dopo la pubblicazione del quarto album, quel Club Privé che era riuscito nell’impresa di deludere un po’ tutti, fan e addetti ai lavori. Ugualmente grande fu il rammarico, soprattutto perché, nel frattempo, i Massimo Volume avevano registrato almeno un disco fondamentale per la storia del rock italiano, l’ormai leggendario Lungo i Bordi (1995), ed un paio di altri eccellenti LP come Stanze (1993, il disco della rivelazione) e Da Qui (1997, la conferma), che dimostravano come il verbo di Sonic Youth e Slint potesse essere coniugato in maniera non pedissequa, piegato ad una vena espressiva assolutamente personale. Sei anni dopo l’annuncio della separazione, abbiamo scoperto che non di addio definitivo di trattava ma di pausa di riflessione – fisiologica, se vogliamo, quando, come artista, t’interessa presentarti al tuo pubblico sempre e comunque in condizioni ottimali. Nel 2008, infatti, Emidio Clementi, Egle Sommacal, Vittoria Burattini (il nucleo storico della formazione) e la “new entry” Stefano Pilia hanno deciso di tornare a suonare insieme, dapprima esibendosi come supporto di Afterhours e Patti Smith in una serata del Traffic Festival di Torino, poi partecipando alla rassegna urbinate «Frequenze Disturbate» ed infine intraprendendo il tanto sospirato tour, dodici date che li hanno visti impegnati anche per parte dell’anno seguente. Ne è risultato un album live (Bologna nov. 2008) e, soprattutto, la decisione di ritornare in studio per registrare materiale inedito. Cattive abitudini, pubblicato l’anno scorso, ci ha riconsegnato una band in buona forma, capace ancora di colpire tanto con la prosa disperata di Clementi quanto con articolate geometrie che, se possibile, col passare del tempo hanno guadagnato in ruvidezza. A dimostrazione di una rinnovato slancio creativo, va citato anche lo split-album con i Bachi da Pietra, uscito nel corso di quest’anno.
Ma veniamo allo show dell’altra sera. La data di Ancona ha chiuso l’edizione 2011 di «Sconcerti», rassegna organizzata dall’ARCI del capoluogo marchigiano che ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Alan McGee, Le Luci della Centrale Elettrica, Iosonouncane, Calibro 35 e Oneida. La performance, diciamolo subito, non ha affatto deluso le attese. Clementi & co., introdotti dagli Young Wrists (trio dedito ad un post-punk virato shoegaze), hanno mostrato uno stato di forma invidiabile, regalando un ora e un quarto carica di spasmodica intensità, di suggestioni potenti, sempre in bilico lungo il crinale che separa malinconia sconfinata e rabbia incandescente. La batteria secca ed essenziale della Burattini, i dialoghi perfetti tra le sei corde di Sommacal e Pilia, che tratteggiavano texture ipnotiche o, al contrario, cedevano ai più bradi istinti noise, le linee di basso essenziali di Clementi, il suo recitato veemente, scevro da ogni teatralità autocompiaciuta: c’erano tutti gli ingredienti che da sempre contraddistinguono il sound dei Massimo Volume, quel post-rock dalle tinte fosche, intriso di fatalismo noir, carico di un opprimente senso di solitudine, alienazione, tragedia esistenziale e morte che così tanta influenza ha avuto sulla scena alternativa italiana.
La scaletta ha visto primeggiare estratti di Cattive Abitudini (del resto, è l’album che dà il titolo al tour): Robert Lowell, Coney Island, Litio, Tra la sabbia dell’oceano, La bellezza violata e Fausto (presumibilmente dedicata a Faust’O, all’anagrafe Fausto Rossi, nume tutelare della new-wave italiana nonché co-produttore artistico, assieme agli stessi Massimo Volume, del capolavoro del 1995) sono state “aggredite” dalla band in nome di un mix perfettamente equilibrato di vis espressiva e abilità tecnica, in cui la prima non s’è trasformata in ottusa ricerca del frastuono a tutti gli effetti e la seconda non ha congelato l’emotività nascondendosi dietro un solipsismo e un’autoreferenzialità che, in effetti, sono sempre state ben lontane dall’approccio del combo. Il quale, del resto, ha dato il massimo anche negli estratti da Stanze (In nome di Dio, Ororo, Cinque strade) e Da Qui (Senza un posto dove dormire), riuscendo a strappare applausi persino con l’esecuzione (esemplare) di Seychelles ’81, tratta da Club Privé. Inutile dire, però, che l’apice dello show lo si è toccato ogni volta che Clementi ed i suoi hanno imbracciato i propri strumenti per intonare quelle superbe odi al vuoto esistenziale che rispondono ai nomi de Il primo Dio (introdotta dal bandleader, evidentemente colpito dal calore del pubblico, con un «questa è per tutti voi»), Il tempo scorre lungo i bordi, Fuoco fatuo e Meglio di uno specchio, contenute ovviamente in Lungo i bordi, laceranti come lame il cui filo non è stato per nulla intaccato dallo scorrere del tempo e quasi chirurgiche nello scandagliare gli stadi terminali dello spleen metropolitano.
La band, insomma, non s’è risparmiata: ha mantenuto il ritmo elevatissimo per tutta la durata del concerto, trascinata dall’innegabile carisma di Emidio Clementi, frontman di rara presenza scenica, che torreggiava imponente sul palco, declamando le proprie parabole pregne di horror vacui con quell’intensità febbrile di chi è abituato a camminare lungo il baratro e a contemplare l’abisso delle nostre solitudini, consumate in stanze vuote, notti infinite e albe gravide di oscuri presagi.
Imperiosi.