Trent Reznor e il cinema. E perché no? Del resto, il nostro è da sempre uno dei massimi campioni di un tipo di musica “figurativa”, dall’indubbio gusto cinematico. Ovvio dunque che tanta forza espressiva dovesse, prima o poi, essere messa al servizio della settima arte. E chi meglio di David Fincher, regista di solitudine, furore inespresso e alienazione post-industriale, per iniziare?
The social network è il suo ultimo capolavoro, amara ironia sul mito del “self made man” e sull’“American dream”, parabola di un ragazzino che volle farsi uomo troppo in fretta (Mark Zuckerberg, inventore di Facebook) e che, nonostante il successo personale, precipita in un vuoto (di sentimenti, morale) senza fondo. Per la soundtrack dell’opera fincheriana, Reznor si è avvalso della collaborazione di quell’Atticus Ross con cui collabora nel side project How to Destroy Angels (assieme alla signora Reznor, Mariqueen Mandig) e che ha prodotto i Nine Inch Nails di Year zero, Ghosts I-IV (che ha anche contribuito a scrivere) e The slip. Ed è proprio agli due ultimi lavori citati che la colonna sonora di The social network sembra ispirarsi. Abbandonata la ferocia degli esordi, Trent e Atticus hanno puntato su un sound nel complesso più atmosferico, diluendo le pulsioni industrial in un bagno perturbante e sinistro di minimalismo, electro-pop e ambient.
Strati di synth e rumorismi d’ogni sorta costituiscono il pattern su cui s’inseriscono ora linee di piano e keyboard à la Sakamoto di limpida bellezza (Hand covers bruise, It catches up with you e soprattutto Soft trees break the fall), ora truci riff electro-rock (A familiar taste, in realtà un remix di 35 ghost IV). Non mancano momenti da dancehall futurista (In motion, con le tastiere impegnate in nevrotici saliscendi cromatici e un generale aroma da synth pop anni ’80), inflessioni krautrock stile Kraftwerk (Complication with optimistic outcome), passaggi “orchestrali” (la sogghignante cover di In the hall of the mountain king del norvegese Edvard Grieg), meditazioni post-ambient (Almost home) e sfrenate danze tribali (Magnetic, una riscrittura di 14 ghost II, sempre da Ghosts I-IV).
Nel complesso, siamo difronte ad un ottimo lavoro. Pur senza aggiungere niente al genere e, anzi, realizzando una sorta di compendio dell’attuale scena industrial, Reznor e Ross hanno pennellato 19 bozzetti d’indubbia efficacia, dal fascino inquieto, sospeso, sfuggente, commento perfetto per il capolavoro di Fincher. I tempi di The downward spiral (1994) sono inevitabilmente tramontati, ma “Mr Self Destruction”, con il prezioso contributo di Ross, sembra ancora in grado di regalarci qualche brivido.