Gregg Allman – Low Country Blues

Tornare sulle scene dopo quattordici anni non dev’esser facile, soprattutto se il proprio universo sonoro è direttamente collegato a una delle più grandi e importanti band della storia del rock, la Allman Brothers Band. In questo nuovo lavoro, il leggendario musicista americano, coerentemente con i propri gusti e le proprie inclinazioni, s’immerge nella rivisitazione dei classici del blues, quasi come se fosse una lezione di storia del genere, un compendio della “musica del diavolo” dalla A alla Z.

Peccato, però, che né l’interpretazione vocale né quella strumentale decollino mai. Gregg (non esattamente un guitar hero come il fratello Duane, deceduto nel 1971 in un incidente stradale) non viene infatti supportato a dovere dalla band che l’accompagna e neppure dal lavoro alla consolle di T. Bone Burnett, songwriter e producer leggendario, autentico asso della roots, il quale raramente ha sbagliato un colpo durante il corso della sua carriera, ma che qui, purtroppo, propone un sound fiacco, privo di spigolosità e asprezze graffianti. Tutto l’opposto, insomma, del discorso portato avanti dalla Allman Brothers Band, un gruppo di fanatici di musica nera che, in pieno furore 70s, proponeva una rivisitazione del blues in chiave southern (filone del quale furono tra i massimi protagonisti) vivace e adrenalinica, immortalata in infuocate esibizioni dal vivo (il memorabile “Live at Fillmore East” del 1971). In “Low Country Blues” il seme magico da cui è nato il rock (Devil Got My Woman di Skip James, I Can’t Be Satisfied di Muddy Waters, Floating Bridge di Sleepy John Estes e tantissime altre) è riproposto con un rispetto e una devozione tali, però, da sfociare in un classicismo forse eccessivo.

Si sa, si è fedeli soltanto nei confronti delle cose che si amano, e sicuramente Gregg Allman di amore verso il genere ne ha dimostrato davvero tanto, ma quest’album, onestamente, sarebbe venuto meglio con qualche goccia di fantasia in più.

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