The Decemberists – The king is dead

Era prevedibile. Il tonfo, intendiamo. Con in cassaforte gioielli come Castaways and cutouts (2002), Her majesty(2003) e The crane wife (2006), e monili magari meno preziosi ma comunque ottimamente rifiniti come Picaresque (2005) e The hazards of love (2009), lo scivolone prima o poi doveva arrivare. The king is dead, la nuova fatica dei Decemberists di Colin Meloy, non è un album brutto. Di più: è un disco inutile. La sua è una leggerezza che fa rima con superficialità e sconfina nell’evanescenza, nell’impalpabilità. Il tentativo, piuttosto evidente, era quello di ritornare alla spensieratezza del primo LP, ad una raccolta di canzoni che fosse distante anni luce dalla complessità di The hazards of love, vera e propria rock-opera che spaziava dal folk all’hard-rock. Evidentemente Meloy aveva bisogno di tirare un attimo il fiato e per questo ha deciso di concedersi un divertissement.

Peccato, però, che questo sesto full-lenght del combo si riveli, in realtà, un’accozzaglia di banalità roots. I modelli di riferimento sono nobili: Dylan, Young, Petty e REM. La loro lezione, tuttavia, è riproposta in modo scialbo, prevedibile, in brani contraddistinti da una scrittura che, puntando alla linearità, centra invece in pieno il bersaglio della banalità e da arrangiamenti che dell’inventiva del passato non hanno praticamente nulla. Meloy, insomma, ha confuso la semplicità (più apparente che reale, in effetti) degli inizi con un mainstream country, folk e rock dall’irritante pochezza.

Pezzi come Don’t carry it all, Rox in the box, January hymn, All arise!, June himn e Dear Avery, infarciti di pedal steel zuccherose, armoniche che rimandano a grandi spazi aperti, violini da saloon e delicati cori femminili, possono trarre in inganno forse gli ascoltatori più ingenui: quelli più smaliziati, invece, ascoltando queste patetiche confessioni a metà tra strada tra spirito francescano e malinconie da cowboy, penseranno immediatamente, senza scomodare i nomi illustri citati sopra, al Ryan Adams più autoindulgente. Non bastano la frizzante Calamity song, le grintose Down by the water e This is why we fight (le più “remmiane” del lotto: non a caso, nella prima ci suona la chitarra Peter Buck) e la country ballad Rise to mea risollevare le sorti dell’album: per quanto superiori al resto della scaletta, si tratta sempre di passaggi al di sotto dello standard della band. The king is dead è un’opera fortemente impersonale: chiunque avrebbe potuto incidere questi dieci bozzetti. Meloy non doveva: non uno come lui, con la sua intelligenza compositiva, il suo talento melodico e il suo sopraffino gusto armonico. Un incidente di percorso, da archiviare al più presto.

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