Il Colore del “disaju”: Sons of Klà!

Titolari del progetto Sons of Klà!, Demian Maravich e Bread Milk, con il loro terzo album, “La Decade deu Disaju”, ci hanno regalato uno dei lavori migliori dell’anno appena trascorso. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con entrambi, cercando di capire qualcosa di più di quel folle caleidoscopio che è la loro musica.


Sul vostro MySpace si legge che entrambi, prima di dar vita ai Sons of Klà!, avete militato in svariati gruppi. Poi vi siete incontrati ed avete deciso di dar vita a questo vostro progetto comune. Potete raccontarci un po’ più nel dettaglio come sono andate le cose? E da dove avete preso l’idea per il nome?

Demian Maravich: A dire il vero io e Bread ci conoscevamo sin da ragazzini, giacché abitavamo nello stesso quartiere. Crescendo, ci siamo persi un po’ di vista per poi riavvicinarsi, paradossalmente, quando lui si trasferì a Londra.

Durante quel periodo, ho militato nei Pistol Maravich, esperienza artistica che si è conclusa con tre album all’attivo, dischi dei quali vado particolarmente orgoglioso perchè credo che abbiano fatto un po’ da apripista a band come i Turbogonzo o gli Europesquare, di cui sono un fan sfegatato. Al rientro in patria di Bread [in passato attivo, tra le altre cose, negli House of the Life, N. d. R.] sia lui che io eravamo senza un gruppo: il resto è venuto da se. I Sons Of Klà!, dunque, sono nati un po’ per caso e un po’ per gioco nell’aprile del 2008. Man mano che si andava avanti, però, ci accorgevamo che il gioco ci piaceva un bel po’. Ci siamo trovati da subito in sintonia ed il primo, omonimo album è stato concepito in meno di 5 mesi. Neanche il tempo di scegliere la tracklist del debut che eravamo di nuovo al lavoro, a gettare le basi di ciò che sarebbe diventato “Of Soul Of March” (2009), il nostro secondo album.

Per quanto riguarda il nome della band, è stato una mia idea, una sorta di omaggio ad un grandissimo personaggio che conosciamo sia io che Bread. “Klà” è infatti una persona realmente esistente e la nostra stima nei suoi confronti è tale che vorremmo essere i “figli di Klà”!

La vostra musica si basa su un forte utilizzo di sample e loop, attraverso i quali costruite partiture complesse, che mescolano con disinvoltura dub, funk, folk, psichedelia, elettronica, jazz e quant’altro. Ma, concretamente, come nascono le vostre composizioni? E quanto è importante in esse l’elemento improvvisativo?

Bread Milk: L’improvvisazione per noi è fondamentale e la composizione dei pezzi è totalmente a quattro mani. Non vogliamo incatenarci in un unico stile perché non basterebbe a raccontare le nostre storie: vogliamo utilizzare il più possibile tutte le conoscenze che il mondo discografico ci ha messo a disposizione.

Demian: Concordo con Bread: l’improvvisazione gioca ruolo sempre importante nel concepimento delle nostre “creature”, ma credo sia così per molte band. Sin dal primo album non ci siamo posti alcun limite, non volevamo focalizzarci su di un genere ben preciso, perché non è nel nostro DNA. Non ci siamo mai seduti ad un tavolo per dirci: “Hey, questa sera facciamo un pezzo funk”. Tutto è sempre avvenuto seguendo il flusso dell’ispirazione. Nemmeno noi sappiamo bene da dove esso provenga: posso solo dirti che cavalcare questo flusso ci fa sentire bene e ci fa divertire un casino!

La ricchezza di spunti che caratterizza le vostre composizioni lascia supporre ascolti e gusti musicali estremamente diversificati…

Demian: Beh, citarti Tool, Nine Inch Nails, Archive, Massive Attack, Sigur Ròs e Jane’s Addiction come alcuni dei miei gruppi preferiti può bastare?

Bread: Se a ciò aggiungiamo che tra i miei ascolti ci sono, invece, artisti come Jaco Pastorius e Kyuss

“Decade deu Disaju” è il vostro terzo album, seguito dell’ottimo “Of Soul of March” (2009). Innanzitutto, come mai avete scelto di chiamare il disco proprio così? Qual è il “disagio” che avvertite?

Bread: Il disco parla del nostro “disaju” interno ed esterno. Parla di tutto ciò che ci è venuto addosso in questa decade, di tutto ciò che siamo stati costretti ad ascoltare e vedere (musica & TV) e che non ci piace affatto.

Demian: Il titolo dell’album ci è stato ispirato da una ragazza che vive a Parma, tale Claudia, la quale ha ospitato me e Bread per un weekend. La prima sera, rientrando a casa dopo aver fatto abbondantemente festa, Claudia prende un mandarino ed esclama: “Che disagio!”. Per noi fu una folgorazione: tempo cinque secondi ed eravamo impegnati a prender nota di tutto ciò che lei stava facendo sotto i nostri occhi. Il brano Disaju, in definitiva, racconta ciò che Claudia ci stava regalando in quegli attimi. Credo che non ci ospiterà mai più tutti e due contemporaneamente!

Anche in quest’ultimo disco, l’ascoltatore viene immerso in un paesaggio di suoni sempre cangiante, che non offre punti di riferimento. La vostra è una musica “mutante”, basata sulla decostruzione dei generi e sull’esplosione della forma-canzone tradizionale. Diciamo che se il vostro obiettivo era sottrarvi a qualsiasi classificazione o etichettatura, allora l’avete centrato in pieno…

Demian: Come anche Bread spiegava prima, non è nel nostro DNA farci incanalare in una determinata scena musicale: non è nei nostri programmi. Tutto accade nella totale spontaneità e se tu stesso non ti senti di classificarci in alcun modo, allora vuol dire che stiamo facendo un buon lavoro sotto questo punto di vista. Del resto, non dare punti di riferimento, mette… a “disaju”, no?

6 January, la traccia di apertura, è una sorta di mantra spettrale. Cosa potete dirci della genesi del pezzo? E a cosa allude il titolo?

Bread: Il titolo allude al giorno in cui abbiamo registrato la canzone. Demian ha suonato la melodia iniziale del piano, io ho messo le chitarre. Il testo deriva da un appunto di viaggio contenuto in una delle mie agende. Abbiamo poi aggiunto un bell’effetto alla voce, et voilà, bella come poche altre. Siamo molto orgogliosi di questa canzone.

Demian: Avevo questo giro di piano in testa da un po’ di giorni. Non appena io e Bread ci siamo rivisti, l’ho subito registrato. Il pezzo è venuto fuori in maniera abbastanza naturale, ma è sicuramente il più cupo del disco.

Uno degli elementi ricorrenti della vostra musica è la passione per le sonorità funk, come dimostra ampiamente Colore

Demian: Vero. Non a caso, sia io che il mio socio siamo grandissimi fan di George Clinton, Funkadelic e dei primi Red Hot Chili Peppers.

Bread: Anche George Clinton è un “figlio di Klà”!

Demian: Credo, comunque, che il funk abbia influenzato in maniera più marcata quest’ultimo album rispetto ai precedenti. In “Of Soul of March”, ad esempio, le sonorità sono molto più cupe: evidentemente non stavamo passando un bel periodo e questo, di riflesso, ha influenzato le nostre composizioni. In “La Decade deu Disaju”, invece, a quanto pare è tornato il… Colore!

A dimostrazione di come i vostri pezzi spesso giochino sui contrasti c’è Last Night on Earth, le cui pulsazioni sporche ed i passaggi industrial terminano, grazie ad un mirabile uso del cut’n’paste, in un rock’n roll vecchio stile…

Bread: Penso che quel cut’n’paste sia stata una vera genialata. Il bello è che è venuto da solo, perché quella canzone – scherzi da iTunes – si è letteralmente “intromessa” nel nostro pezzo, a dimostrazione ulteriore di come, a volte, l’imprevisto superi di gran lunga la razionalità…

Demian: Last Night on Earth è il delirio di una personaggio che ha ingerito funghi allucinogeni. Il tizio comincia a vedere degli animali domestici volare nel suo bagno e si convince di essere sotto attacco atomico. Allora esce allora di casa e si reca in un locale, dove si balla appunto rock’n’roll, convinto, però, di trovarsi in un rifugio antiatomico, dove la gente danza spensierata mentre fuori si consuma “l’ultima notte sulla Terra”…

Anche nelle vocals di Quiproquorum (brano, per altro, dalla struttura estremamente articolata, in cui confluiscono jazz, funk, samba ed elettronica da dancefloor) si evidenzia questo vostro spirito tra il goliardico ed il demenziale. Di cosa parla esattamente il testo?

Demian: Il testo parla di una persona che possiede una scatolina d’oro nella quale tiene nascoste delle anatre, ma è una metafora: si tratta del classico brano che lascia all’ascoltare la libera interpretazione del contenuto.

Bread: All’inizio, avevamo questa struttura musicale, bella ma debole. Poi arriva Demian e, con una sorta di mantra, dà sfogo al suo ego “leopardiano” (sia animalesco che poetico), mentre io mi limito a trascrivere tutto ciò che dice. Quando rileggo il testo, scoppiamo a ridere: la cosa ci piace e, bam!, la registriamo.

Southern Rock Piano Will Tell You the Truth porta alle estreme conseguenze il discorso della “mutazione” che facevamo prima. Il brano parte come un ballabile per androidi ma, ad un tratto, si fa largo (fino a prendere completamente il sopravvento) una progressione di piano, supportata da beat tribali ed arricchita da fanfare r’n’b. Ad accrescere l’effetto di straniamento c’è poi il sample, mandato in loop, di una risata che suona tutt’altro che rassicurante…

Demian: A dire il vero, la risata per me non suona affato sinistra, forse perchè è la mia, forse perchè è stata registrata mentre mi sbudellavo dalle risate, dato che non riuscivo a credere nemmeno io quanto quel crescendo di piano legasse così bene con la parte che lo precede. È un brano nel quale inizialmente volevamo cantarci su qualcosa, poi quella risata ha cambiato tutti gli scenari. È assolutamente… genuina! Sono orgoglioso di questo pezzo, ho lottato fino all’ultimo per inserirlo nel disco, perché a Bread non andava e non va tutt’ora granchè a genio…

Bread: In effetti, ero abbastanza scettico su questa canzone, ma dato che succede quasi sempre, alla fine ho lasciato scegliere a Demian. Per quel che mi riguarda, posso dire che è un pezzo fatto con le lacrime, quelle del mio socio, che si sentono nella risata “non rassicurante”. L’idea, all’inizio, era quella di invitare tutti i nostri amici ed inserire un coro gospel: non abbiamo potuto realizzarla, ma ce la teniamo buona per il prossimo album. A tal proposito, vorrei rassicurare tutti i nostri fan: le voci di uno scioglimento de Sons of Klà! sono tutte bugie. Io e Demian non ci lasceremo mai, perché io amo lui e lui odia me: siamo perfetti, insomma!

Make Me Blue è la track più sperimentale della raccolta, in cui la voce manipolata gioca un ruolo fondamentale…

Demian: Il brano è nato alla fine di una sessione di prove. Stavamo mettendo a posto gli strumenti quando Bread si è seduto ed ha cominciato a suonare questo giro di basso, senza riuscire a smettere. Non so perchè, ma ascoltandolo ora mi ricorda qualcosa di Roger Waters, nella versione più acida però. Anche qui, l’improvvisazione ha giocato un ruolo fondamentale. All’inizio del pezzo, batto il tempo con la lingua e col mio giaccone (dato che mi ero già vestito per uscire). Casualmente, poi, in tasca avevo un kazoo e che fai, non lo usi? E così ho iniziato ad urlarci dentro, davanti al microfono che aveva ancora un delay inserito. Il risultato mi sembra interessante no?

Bread: A mio parere, si tratta di un pezzo bellissimo. La versione presente sul disco è l’unica mai provata, e si sente tutta quella freschezza che solo una canzone nuova sa trasmettere. Abbiamo inserito sullo stesso canale basso e voce, con un po’ di delay, ed ecco cosa ne è venuto fuori. Credo che questo brano trasmetta il vero messaggio dei Sons of Klà!, quella profonda ricerca, giù nelle viscere della terra, dove inizia il “disaju”, dove la “decade” ha solidificato le proprie radici. Anche se il finale può rimandare ad una sorta di decollo, l’intento era, all’opposto, quello di scavare a fondo.

Con “Decade deu Disaju” vi siete definitivamente imposti come una solida realtà del panorama underground italiano. Il fatto che siate senza una label non sembra turbarvi più di tanto (per lo meno, la vostra musica non ne risente). Credete che ci possa essere una nicchia tutta per voi e per la vostra musica, così sfaccettata e fuori dai canoni tradizionali, nel mercato discografico italiano, tendenzialmente restio ad investire sulle novità?

Demian: Bella domanda. Non ti risponderò col classico: “Non faccio musica per soldi, l’importante è lanciare un messaggio”. Credo non ci sia niente di di più banale ed ipocrita da parte di un artista. Se dovessimo ottenere un contratto discografico e fare una vagonata di soldi con la nostra musica, non me ne vergognerei: non l’ho mica rubata! Tuttavia, dubito che il mercato discografico e le stesse label in Italia siano pronte a qualcosa del genere – anche se, ovviamente, io continuo a sperarci…

Bread: Secondo me non c’è niente di più lontano da noi del mercato. Per quanto riguarda la label, arriverà quando lo decideremo noi. Del resto, una nicchia ce l’abbiamo già ed è ben solida: qualunque cosa accada, noi saremo sempre, per i nostri veri amici, i Sons of Klà!.

La musica non finirà mai. Ci stanno svendendo pubblicamente ma non potranno toglierci l’anima, mai: ed è li che la musica vive, nel nostro respiro. E allora respirate, respirate a pieni polmoni e buttate fuori quanta più aria possibile. Al diavolo questa crisi che c’ha rotto, basta con tutte le stronzate di cui non abbiamo bisogno e ‘fanculo ai nostalgici: 2011, si parte da qui. Benvenuti a bordo.

Progetti per il futuro? Suonerete un po’ in giro per le Marche e l’Italia?

Demian: Abbiamo appena arruolato un batterista che imparerà i nostri pezzi per eventuali live. Al momento stiamo declinando un po’ di inviti perchè vogliamo essere pronti al 100%. Hai ascoltato bene i nostri pezzi e ti sarai reso conto che per riprodurli dal vivo c’è bisogno di un lavoro enorme, anche in termini di riarrangiamento: ci teniamo a fare le cose per bene, affinchè dal vivo si riesca a ricreare la stessa sensazione… di “disaju” che è nell’album!

SOSTIENI LA BOTTEGA

La Bottega di Hamlin è un magazine online libero e la cui fruizione è completamente gratuita. Tuttavia se vuoi dimostrare il tuo apprezzamento, incoraggiare la redazione e aiutarla con i costi di gestione (spese per l'hosting e lo sviluppo del sito, acquisto dei libri da recensire ecc.), puoi fare una donazione, anche micro. Grazie