Epic45 – Weathering

Immaginate una casa. Una di quelle di legno, con le assi rose dal tempo e dai tarli, posta al centro di una fitta boscaglia. Immaginate un cielo grigio, qualche goccia di pioggia che cade lentamente. Nella casa c’è un uomo. Seduto ad una sedia, fissa un punto imprecisato al di fuori della finestra. Il silenzio è totale: a scandire il flusso dei suoi pensieri, il lieve ticchettio di un orologio a pendolo. Nella stanza, l’uomo non è solo: intorno a lui, fluttuano i fantasmi di una vita in parte già vissuta – i suoi ricordi. Ma non si tratta di spettri spaventosi. Il misterioso inquilino di tanto in tanto volge il capo nella loro direzione (può vederli, lui) e sorride, con una smorfia che tradisce un’infinita malinconia. E quando cala la notte, il momento è quello giusto: l’uomo imbraccia la chitarra e comincia a strimpellare lentamente, quasi accarezzandole, le corde, sussurrando le sue storie, incurante del fatto che, a sentirle, ci sia solo un nugolo di spiriti…

È questa l’immagine che richiama alla nostra mente l’ascolto di “Weathering”. Perché quello degli Epic45 non è un disco qualunque. È il diario di un paio di occhi stanchi, prigionieri di una tristezza senza fondo ma composta, che non ha sbarre ma il cui peso s’avverte respiro dopo respiro, nota dopo nota. Ben Holton (chitarra, tastiere) e Rob Glover (chitarra, basso), placidi contemplatori di nostalgie autunnali e buchi neri emotivi, hanno pennellato undici quadretti pregni di desolazione esistenziale ma mai stucchevoli. Ambient, post-rock, slowcore e chamber-folk sono i colori sulla tavolozza di questi due misconosciuti songwriter, i quali, nonostante abbiano alle spalle una carriera ultradecennale (il loro primo live show risale al 1998, mentre il full-lenght di debutto, “Reckless Engineers”, è del 2002), rimangono ancora un culto per eletti. Troppo poco à la page per sbancare le classifiche di vendita questa musica, che rifugge ipertrofie elettriche indie, revivalismi Sixties di cartapesta o luccicanti remake synth-pop/new-wave anni Ottanta per rifugiarsi, invece, in un intimismo prezioso, fatto di battiti lenti, delicati arpeggi acustici, essenziali interventi di piano, chitarre elettriche, field recording, hammered dulcimer, trombe, violini, ottoni, glockenspiel e xilofoni.

Epic45 è il nome del combo di cui Holton e Glover sono il creative core: e in effetti, in queste tracce un piglio epico s’avverte. Ma non è una grandeur da vincitore, quanto piuttosto il prodotto di una sublimazione estatica delle proprie paturnie, delle proprie angosce. Del resto, cosa recita il titolo dell’opener?People Say This Place Is Slowly Dying. Ma la catastrofe è inscenata in punta di piedi, con una melodia di quelle che non si dimenticano, una tenera ninna nanna appena increspata da interferenze elettroniche che si lancia in un crescendo commovente. Insomma, tutto intorno muore, ma non ce ne facciamo un cruccio: è così che va. «I’ve got to leave this dead place behind/ It’s just a spiral trap» è invece l’incipit di The Village Is Asleep, ma siamo ben lontani dai tramp di Born to Run di springsteeniana memoria: il paesaggio è desertico e il tono carico di una sorta di struggente nostalgia verso qualcosa di indefinito. Le vocals ripetono ostinatamente «things will be alright», ma la sensazione è che la fuga (quella vera) sia, in realtà, impossibile, anche se si riesce a lasciarsi la città alle spalle (With Our Backs to the City, scritta con e interpretata da Stephen Jones dei Babybird).

Summer Message è un altro piccolo miracolo, giocato sull’impasto tra le ugole di Holton e Rose Berlin (figlia di Dean Garcia, bassista dei Curve), dotata di un registro etereo. These Walks Saves Us è un lungo ed estenuante sussurro che poggia su un tappeto di synth, campionamenti vocali e dulcimer, che fa il paio con l’ancor più rarefatte Evening Silhouettes (smaccatamente ambient) e The Weather Is Not Your Friend (lamenti distanti, soundscape digitale e percussioni impazzite). Ghosts I Have Known, Weathering e Washed Up recuperano quantomeno un’idea di canzone (seppur estremamente dilatata e quasi spartana), chiudendo in maniera sublime un disco che è un’autentica gemma.

Nel frattempo, nella vecchia casa nel bosco la notte è passata e il sole ormai sta per sorgere. L’uomo posa la sua chitarra in un angolo. Dà un’ultima occhiata al paesaggio, poi saluta gli spettri e s’incammina per il sentiero che s’addentra nella vegetazione, con forse il cuore appena un po’ più leggero e quello strano, misterioso sorriso triste stampato sul volto…

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