Mamiffer – Mare Decendrii

I Mamiffer sono tra i più originali interpreti della tradizione post-rock in circolazione. Il trio di Washington, mescolando spunti classicheggianti, elettronica ambient-drone e chitarre distorte in brani dalla struttura articolata, ha dato vita ad un ibrido assai intrigante, in cui ricerca armonico/strutturale e melodismo si fondono alla perfezione in partiture estremamente evocative, cinematiche, cariche di pathos. Era così per l’esordio, “Hirror Enniffer” (2008), ed è lo stesso per il suo successore, “Mare Decendrii”.

Rispetto al passato, i brani si sono ulteriormente allungati ed hanno guadagnato qualcosa in complessità e rarefazione. Spiriti inquieti, votati a una forma di sublime malinconia che, a tratti, si tinge di cupa disperazione, Faith Coloccia, Aaron Turner e Travis Rommereim hanno cesellato cinque tracce che somigliano ad altrettante preghiere, cariche come sono di una straziante ansia di redenzione, di un sofferto anelito alla luce. La forma, tuttavia, è composta: non c’è spazio per esplosioni soniche o invocazioni rabbiose. Tutto è pervaso da un rigoroso senso delle geometrie e segnato da un approccio minimalista che, proprio grazie straordinaria vis espressiva del trio, non danno mai vita ad autoindulgenti esercizi di stile, a vacui manifesti programmatici di depressione cosmica, configurandosi, al contrario, come ingredienti imprescindibili per la riuscita di queste pièce desolate.

As Freedom Rings apre all’insegna di una fosca stasi elettronica, su cui s’innestano chitarre processate e pochi rintocchi di piano. Il paesaggio è desertico, l’incedere spossante e il monumentale crescendo che il pezzo a un tratto accenna si risolve in una sorta di cupo requiem. Nei quasi ventuno minuti di We Speak in the Dark si susseguono e si mescolano con disinvoltura paesaggi sintetici “cosmici”, soundtrack da thriller/horror, spunti cameristici, cori tra l’etereo ed il fantasmatico, solenni lamenti à la Scott Walker e litanie da muezzin. La successiva Blanket Made of Ash è un soliloquio ambient-drone, e anticipa la lunga Eating Our Bodies, che alterna una prima parte segnata da una lugubre e maestosa progressione, ammantata da una grazia ultraterrena, ad una seconda impostata su un fraseggio ripetitivo di pianoforte che lentamente rallenta, si sfalda, si sfilaccia (nonostante gli si accosti, ad un tratto, un violino). Iron Water, dal canto suo, chiude il disco all’insegna di una spettrale marcia in cui si condensano, a ben vedere, tutti gli elementi dell’arte del trio.

Il rischio in cui i Mamiffer potevano incappare era quello di realizzare un album-fotocopia dell’ottimo debut. Pericolo scampato: “Mare Decendrii” è un disco che vive di vita propria. Pur giocando con gli stessi elementi alla base del predecessore, i nostri sono infatti riusciti a rimescolarli in maniera più che intelligente, approfondendo anzi il lato più “dark” della loro musica e costruendo brani dall’innegabile appeal. Una riconferma ad altissimi livelli.

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