Fleet Foxes – Helplessness Blues

Meravigliosamente anacronistici i Fleet Foxes. Pochi riuscirebbero a riproporre la lezione di Donovan, Fleetwood Mac, CSN&Y e Beach Boys in maniera tanto convincente, solida, priva di irritanti leziosità eppure fantasiosa. Helplessness blues è il secondo LP per la band, e se l’effetto-sorpresa del debutto omonimo è venuto meno, lo stesso non si può dire della grazia e della forza espressiva dei brani. Robin Pecknold tesse con la consueta perizia la sua tela a base di delicate trame acustiche ed imperiose esplosioni corali, muovendosi in perfetto equilibrio tra slanci estatici e ripiegamenti interiori. L’impressione è quella di trovarsi dinanzi alla versione “appalachiana” di Brian Wilson. Del resto, la stessa Montezuma, posta proprio in apertura di album, dietro quel fascino pastorale non cela forse l’influenza dell’autore di Pet sounds? E che dire della malinconica nenia di Battery kinzie, arricchita dalle immancabili polifonie? Attenzione, si parla di influenza, non di imitazione pedissequa: Bedouin dress, Lorelai, Someone you’d admire e Blue spotted tails hanno la forza per poter camminare sulle loro gambe, senza stampelle.

Nonostante l’attenzione alla cantabilità dei pezzi, i Fleet Foxes amano complicare le cose, misurarsi con architetture più complesse. Sim sala bim, ad esempio, nella prima metà gioca a mascherarsi da traditional apocrifo, con la melodia che si perde dietro visioni angeliche, per poi lanciarsi, nella seconda parte, in una danza sbrigliata, sorretta dallo strumming incisivo delle chitarre. The plains/Bitter dancer, da par suo, con quell’intreccio di vocals a cappella, picking delicati, flauti ed innesti pop, fa pensare a certo prog anni ’60. In tal senso, ancor più significativa è The shrine/An argument, otto minuti di richiami ancestrali, pulsioni psych, stasi mesmeriche e sax free-jazz, che rappresentano l’apice dell’arte barocca di Pecknold. Persino la title-track, scelta come primo singolo, sul finale s’inventa un bel cambio di tempo, rallentando i battiti ed innalzandosi verso la volta del cielo grazie ad una nenia di cristallina purezza. E a conferma di come, anche quando si ammanti di grandeur, la musica dei Fleet Foxes sia sempre venata di malinconia, c’è Grown Ocean, sul cui pattern metronomico il bandleader dialoga con una slide ariosa.

Helplessness blues, una conferma importante per una band e un progetto artistico di sicuro valore.

SOSTIENI LA BOTTEGA

La Bottega di Hamlin è un magazine online libero e la cui fruizione è completamente gratuita. Tuttavia se vuoi dimostrare il tuo apprezzamento, incoraggiare la redazione e aiutarla con i costi di gestione (spese per l'hosting e lo sviluppo del sito, acquisto dei libri da recensire ecc.), puoi fare una donazione, anche micro. Grazie