This Will Destroy You – Tunnel Blanket

Ai This Will Destroy You le cose facili non piacciono. Chris King (chitarra), Jeremy Galindo (chitarra), DonovaJones (basso, tastiere) e Alex Bhore (batteria) avrebbero potuto proseguire lungo il percorso tracciato dal precedente, omonimo album, un debutto che aveva suscitato parecchi entusiasmi e che aveva accostato gli americani a gente come i Mogwai o gli Explosion in the Sky. E invece no: hanno voluto tentare qualcosa di diverso. “Tunnel Blanket” rientra a pieno titolo nel filone del post-rock. Solo che lo fa, per così dire, sfruttando una via d’accesso diversa. Il sound della band ha sempre avuto un elemento fortemente cinematico, atmosferico, il che, unito a melodie pregne di straziante malinconia, ne accresceva il potere evocativo. Tuttavia, questo secondo lavoro del combo americano cambia le carte in tavola. Si è parlato, al riguardo, di “doomgaze e non a sproposito, in effetti. Le composizioni, propulse da un battito lento, estenuato, mescolano con disinvoltura gelidi passaggi ambient, grandiose esplosioni elettriche e orchestrazioni sontuose. Il risultato, tuttavia, è ben lungi dal configurarsi come un arido esercizio di geometria compositiva: dietro le apparenze di un’imperturbabile grandeur minimalista brucia il fuoco della passone, alimentato da un ethos tragico, dolente, che trasforma ogni nota in un singhiozzo, in un’invocazione disperata.

La partenza in slow-motion, sospesa, in punta di piedi di Little Smoke si trasforma in una narrazione drammatica, sospinta da una sezione ritmica narcolettica e da sei corde fuzzose, ai confini del noise. La sensazione è quella di trovarsi dinanzi ad un ibrido tra le estasi dei Sigur Rós, le divagazioni space-rock di uno Stuart Braithwaite, i vortici ipnotici dei Codeine e la sublime tristezza di un Daniel Burton. È un pezzo che vive d’una spaventosa tensione emotiva, testimonianza di un martirio interiore che culmina, nel finale, in una quiete (il dialogo tra tastiere ed archi) che ha più il sapore della rassegnazione che della catarsi. Non c’è redenzione in “Tunnel Blanket”: King e soci s’inabissano nelle profondità dei propri malesseri, ma non ne escono mai vincitori. La tensione sale, si accumula, si trasforma in un urlo lancinante, in una supplica lacerante, ma non trova mai veramente il suo sfogo – come se le porte del cielo fossero chiuse e bussare non servisse a nulla (Common Blood). Una malinconia desolata, oscura, percorre queste tracce: ad ascoltare Reprise vien da pensare quasi a dei Mamiffer ancora più dimessi e catacombali. Ma il gioco è tutto fuorché solipsistico o monotono: Killed the Lord, Left for the New World, ad esempio, intreccia mirabilmente loop, arpeggi acustic-folk, tribalismi e batterie marziali che culminano in un soundscape a base di droni. Ripiegamento interiore, certo; eppure, come sempre accade in questi casi, si finisce anche col guardare alle stelle: lo confermano la stasi rumorista di Glass Realms ma anche il valzer gelido di Osario, che uno s’immagina danzato da una coppia d’androidi su una pista da ballo ai confini di chissà quale remota galassia.

Black Dunes ci fa capire in modo lapalissiano perché quest’album sia stato etichettato col neologismo “doomgaze”, dal momento che seppellisce una liquida nenia sotto una colata di distorsioni mostruose, che farebbero impallidire persino i Mogwai. Powdered Hand chiude il discorso con un post-rock ambientale, dall’incedere quasi impalpabile.

“Tunnel Blanket”, in fondo, non rivoluziona nulla. Tuttavia, è uno di quegli album che, malgrado non segnino indelebilmente la storia della musica, vibra di una intensità che lo eleva al di sopra delle tante (troppe?), scadenti produzioni contemporanee, mostrandoci come, anche in tempi di patetici revivalismi, sia ancora possibile dire qualcosa di personale.

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