Crystal Stilts – In Love With Oblivion

Tre anni orsono, “Alight of Night”, album d’esordio dei Crystal Stilts, fece gridare al miracolo gli amanti dell’indie-rock: quelle canzoncine fragili e raggelate, contese tra psichedelia Sixties, garage-rock, dark-wave e shoegaze suscitarono, infatti, l’attenzione degli spiriti “alternativi”, al punto tale che la band divenne, ben presto, un vero e proprio oggetto di culto. Forte di melodie ben calibrate, ammantate di un fascino retrò che non risultava mai stucchevolmente nostalgico, e di una produzione che, puntando sagacemente sulla “bassa fedeltà”, sporcava il tutto, rendendo il paesaggio ancor più nebbioso e desolato, l’album, pur non essendo un capolavoro, rivelava un singolare talento sincretico, in grado di amalgamare in brani di tre-quattro minuti, strutturati secondo i canoni della tradizionale forma-canzone, una quantità estremamente ampia di spunti.

Ovvio, pertanto, che ci fosse grande attesa intorno a questo “In Love With Oblivion”. Il timore era che il quintetto di Brooklin, New York, potesse limitarsi a una banale fotocopia del primo lavoro oppure cedere alle mode imperanti (dinamica enfatica, melodie epiche, luccichii electro). Per fortuna, la seconda prova di Brad Hargett e soci non delude le attese. Gli ingredienti sono in fondo gli stessi, ma la pietanza presenta, al palato, sfumature diverse. Il tipico mix di Doors, Velvet Underground, Joy Division, Kinks e Jesus and Mary Chain stavolta viene declinato in chiave, se possibile, ancor più onirica. I cinque non inventano nulla di nuovo, ma l’appeal delle composizioni e l’intelligenza profusa nella loro costruzione sono invidiabili. Sycamore Tree è una sorta di rockabilly spiritato, con sezione ritmica imperturbabile, chitarre riverberate, organetto fantasma e vocals lugubri. Through the Floor, pur se contraddistinta da una melodia vivace, riecheggia distante, come provenisse da qualche oscuro anfratto. Sono tuttavia gli oltre sette minuti di Alien Rivers a strappare il primo, vero brivido lungo la schiena: incedere lento, folate elettriche e cantato sciamanico ci immergono in un vortice di suggestioni ipnotiche debitore tanto delle tormentate confessioni di Ian Curtis che delle visioni di Jim Morrison. Half a Moon è una rilettura del merseybeat kinksiano alla luce della lezione di Stooges e MC5, che dimostra come, seppur in misura forse minore rispetto al predecessore, “In Love With Oblivion” paghi pur sempre un dazio all’Albione di cinquant’anni fa. Flying into the Sun è il momento più teneramente malinconico dell’LP, subito controbilanciato dalle chitarre jingle-jungle e dal mood solenne di Shake the Shakles. Precarious Stair è figlia illegittima della psichedelia anni ’60 (vengono in mente i Doors, ma il sospetto è che i riferimenti siano molto più ampi). Invisible City e soprattutto Blood Barons, puntano invece su atmosfere decisamente dark, con la seconda, in particolare, contrassegnata da un basso galoppante e una serie di sevizie chitarristiche. Prometheus at Large, dal canto suo, strizza l’occhio ai Cale & Reed di Run Run Run, inscenando uno shuffle acido e glaciale, con le sei corde che strillano impazzite.

Si conclude in questo modo “In Love With Oblivion”, lavoro di gran spessore con cui i Crystal Stilts mettono definitivamente a fuoco quanto di buono c’era in “Alight of Night”. Dalla prossima prova ci aspettiamo un ulteriore balzo in avanti: il quintetto, infatti, sembra avere tutte le carte in regola per lasciare nella polvere gli inseguitori.

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