Chad VanGaalen – Diaper Island

Ci sono degli album che, pur non inventando nulla di nuovo ed anzi crogiolandosi amabilmente nell’imitazione “ragionata” e non pedissequa di stilemi del passato, risultano all’ascolto per nulla stucchevoli ed anzi assolutamente gradevoli. È il caso, ad esempio, di “Diaper Island”, quarto lavoro del canadese Chad VanGaleen. Nativo di Calgary, Alberta, il nostro è il prototipo del cantautore indie: scrive, arrangia e registra i suoi pezzi da solo in chiave rigorosamente lo-fi, seguendo i dettami di quell’estetica un po’ approssimativa “da cameretta” (anzi, nel nostro caso “da cantina”: è lì, infatti, che il nostro abitualmente crea). Quest’ultimo suo lavoro, nonostante vanti un sound forse più compatto e per certi versi “professionale” rispetto ai predecessori (merito dell’utilizzo di uno studio di registrazione), non tradisce comunque lo spirito di album come “Infiniheart” (2005), “Skellyconnection” (2006) e “Soft Airplane” (2008).

La matrice delle dodici tracce è un folk-rock che oscilla tra innesti rumoristi e divagazioni psych, ma senza rinunciare a contaminazioni col garage o a più malinconiche meditazioni West coast. In primo piano, la chitarra, ma non mancano spruzzate di elettronica. Si parlava di una maggiore organicità rispetto al passato, ma la quantità di citazioni è ugualmente ampia. Do Not Fear, ad esempio, è una specie di nenia barrettiana con un retrogusto à la Velvet Underground, mentre Heavy Stones (con il suo passo strascicato ed indolente) e Sara citano esplicitamente Neil Young. Shave My Pussy, dal canto suo, sembra fare il verso al freak contemporaneo per eccellenza, Devendra Banhart.

Peace of the Rise è una ninna-nanna folk-rock, in cui, tuttavia, c’è spazio per divagazioni sintetiche, mentre Blonde Hash (litania lisergica all’insegna di cori spettrali, vocals solenni, soli distorti e rumorismi assortiti) ancora una volta strizza l’occhio d’occhio alla premiata ditta Reed Cale. In Can You Believe It!?, tra un’esplosione garage/noise e l’altra, affiora lo spettro di Stephen Malkmus e dei suoi Pavement (a ben vedere uno dei numi tutelari dell’intera operazione): del resto, cos’è Replace Me se non un perfetto compendio della scena alternative anni ’90? Wandering Spirits sarebbe potuta essere una morbida litania a metà tra Young e Sam Beam, non fosse stato per gli intermezzi stranianti a base di fiati ed elettronica acida. È uno dei brani più toccanti della raccolta, assieme al valzerino d’altri tempi di No Panic/No Heat.

In conclusione, volendo riassumere “Diaper Island” in una frase, potremmo dire: nulla di veramente necessario, ma tutto molto grazioso. E questa non è una cosa da poco: in tempi di produzioni tanto scintillanti in superficie quanto vuote dal punto di vista del contenuto, un album come questo è un toccasana, se non altro per la genuinità dell’approccio e la grazia e l’intelligenza del songwriting di VanGaleen, il quale riesce a non farsi mai vincere dalla tentazione di rifugiarsi in sonorità banalmente stereotipe o in compiaciuti esercizi di stile.

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