EMA – Past Life Martyred Saints

In principio erano i Gowns, duo avant/post-folk sotto le insegne del quale Erika M. Anderson (EMA, per l’appunto) ed Ezra Buchla avevano pubblicato il sorprendente “Red State” (2007), disco intriso di uno spleen disperato, sepolto sotto una spessa coltre di ghiaccio. Le partiture giocavano su una commistione di trame acustiche ed elettroniche, all’insegna di un’estetica che faceva pensare ad un prodotto quasi amatoriale, propulse da ritmiche narcolettiche (secondo la lezione dello slowcore) ed animate da una vitalità da moribondo, che lasciava poco spazio alla speranza.

Terminata quell’avventura, la Anderson ha deciso di tentare la carta solista. E pur non rinnegando, evidentemente, gli esperimenti del passato, in “Past Life Martyred Saints” il tono sembra essere maggiormente cantautorale. Sono stati fatti, al riguardo, i nomi di Cat Power, Nico e Pj Harvey: tutto giustissimo, ma qui c’è di più. L’arte di EMA si nutre di spunti troppo diversi perché sia possibile ingabbiarla entro schemi preconfezionati. I sette minuti di Grey Ship, ad esempio, ci consegnano un affresco oscuro, tormentato, che parte come una tenera nenia dall’appeal lo-fi per poi mutare improvvisamente pelle e trasformarsi in un’oscura danza, che fa da preludio ad un robusto crescendo corale, dominato dalle chitarre elettriche – salvo chiudere come tutto era iniziato, all’insegna di un sussurro tutt’altro che gioviale.

Disperazione, ansia febbrile, desiderio di catarsi: la musica di EMA è un coacervo non solo di stili, ma di umori. Difficile districarsi in questo magma d’invocazioni struggenti, slanci rabbiosi e confessioni desolate che si muove lungo il crinale sottile che separa la rassegnazione dalla speranza, il gelo interiore dalla passione bruciante. Si prenda, ad esempio, California: su un soundscape sintetico di annichilente bellezza lacerato da spasmi industriali, Erika si lancia in qualcosa a metà tra l’arringa e la confessione disperata («I don’t mind dying» ripete nel corso del pezzo, e non c’è davvero motivo per cui non le si debba credere).

Dicevamo di una vena maggiormente cantautorale: a confermarlo, pezzi come Anteroom, Marked o Breakfast, che tradiscono l’interesse della nostra per sonorità folk a bassa fedeltà. La suggestione delle tracce, sempre estremamente evocative, è affidata ad arrangiamenti scarni, che non disdegnano di iniettare nel tessuto armonico terribili rumorismi, e in un mood dimesso, malinconico ai limiti dell’astenia. Dinamiche più spettacolari caratterizzano Milkman, angosciato ballabile industriale percorso da passaggi psych, mentre Butterfly Knife, nonostante un’intrigante impasto di vocals isteriche e sei corde oscure, si ferma un gradino sotto le aspettative. Si tratta, però, dell’unico momento relativamente debole del disco, che chiude all’insegna dell’estasi post di Red Star, una lenta ed ipnotica progressione che culmina in un crescendo elettrico di grande impatto.

Nonostante la sua giovane età (22 anni), la Anderson ha confezionato, insomma, un signor album, degno successore del cult inciso con i Gowns, che lascia intravedere margini di crescita artistica davvero impressionanti

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