Ladytron – Gravity the seducer

Gary Newman vs. Cocteau Twins: volendo, uno potrebbe tranquillamente ridurre quella che ad ora è la parabola artistica dei Ladytron a questi due estremi. Non sarebbe, in effetti, un’operazione intellettualmente sofisticatissima, ma risulterebbe comunque utile a chiarirsi un po’ le idee. Dopo l’electro darkeggiante di Velocifero (e i due antecedenti synth-poppettari di 604 e Light & magic), con Gravity the seducer gli ango-bulgari hanno deciso di concedersi una vacanza “dreamy”. Sparite le asperità electroclash, rimangono tastiere orchestrali, voci suadenti e beat ipnotici, a propellere melodie pacate come non mai. Come nelle fiabe, l’incantesimo è sfavillante, ma di breve durata. White elephant, posta programmaticamente in apertura, incuriosisce ma non cattura. Stesso discorso per l’affresco gotico di Moon palace (Elizabeth Frazer, ma anche Bat for Lashes) e Altitude Bbues, in odor di Kraftwerk. Il punto è la sovrabbondanza di cliché, che mina la forza evocativa, atmosferica, delle partiture. L’accostamento tra i vagiti sofferti di Ambulances e la più sanguigna Melting ice, dalla forte impronta percussiva, è poi sintomatico dell’indecisione che ancora attanaglia il quartetto: abbandonare o meno il dancefloor?. Nel dubbio, Mirage tenta la carta della pop-wave e Ritual si lancia in uno strumentale a cavallo tra kraut e post-punk, ma l’impressione è che in entrambi i casi si sia ancora allo stadio preparativo, di abbozzo: è il germe di qualcosa che potrebbe essere ma non è ancora, non del tutto. Meglio fanno la snella e cubista White gold (un esplicito omaggio al passato, con un retrogusto björkiano appena percettibile), il muto crescendo cinematico di Transparent days e l’oscura 90 degrees, mix perfettamente equilibrato di delicatezza ed imponenza, di malinconia e luminosità.

In definitiva, Gravity the seducer sembra un tentativo estemporaneo più che un progetto preciso, il frutto di una seduzione (è il caso di dirlo) momentanea, non di una scelta ragionata. Daniel Hunt e i suoi si sono avventurati in un territorio della cui geografia hanno solo una conoscenza approssimativa, affidandosi all’intuizione per trovare la propria via, ma senza riuscire a venire a capo di (quasi) nulla. Puntavano a raggiungere una vetta inesplorata e, da lassù, abbandonarsi alla contemplazione del panorama; hanno finito, invece, col parcheggiarsi in un camping per turisti, tentando goffamente di far passare il compromesso per vittoria. Troppo poco per chi aspira a riscrivere le regole del gioco.

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