The Drums – Portamento

I The Drums sono l’ennesimo gruppo americano divenuto britannico per “adozione”. Il loro omonimo debutto, pubblicato nel 2010, mescolava infatti surf music e melodie anni ’50 con sonorità albioniche twee e post-’77 (The Smiths e The Cure su tutti). Tanto bastò a farne una sensazione, nonostante le composizioni fossero al massimo graziose. Con “Portamento”, il quartetto capitanato da Jonathan Pierce (nel frattempo rimasto orfano del chitarrista Adam Kessler, rimpiazzato dalla “new entryMyles Matheny) cerca di introdurre qualche novità nel proprio sound, mettendo in secondo piano le sei corde e lasciando maggior spazio a synth, tastiere e drum machine. Risultato, una new-wave virata pop piuttosto fiacca, penalizzata da arrangiamenti monotoni e da una scrittura decisamente prevedibile, che si limita ad ammucchiare cliché su cliché.

“Portamento”, insomma, offre la solita carrellata a base di bassi oscuri, elettronica atmosferica, delicate Fender in picking e nenie che, dietro l’andamento sbarazzino, nascondono un mood più “dark” e malinconico rispetto al predecessore. I numi tutelari dell’operazione sono i soliti, ovvero Robert Smith e Morrissey/Marr, corretti magari da un pizzico di Joy Division e New Order – anche se, in realtà, a tratti sembra di sentire piuttosto i The Whitest Boy Alive. La formula, tuttavia, mostra subito la corda. Book of Revelation e Days risultano gradevoli, ma solo perché fanno da apripista, tracciando un sentiero che il resto della scaletta si guarderà bene dall’abbandonare, tant’è che il disco precipita ben presto nella noia, inanellando una serie di ballatine timide che sembrano fatte con lo stampino. What You Were e Money fanno il verso a Moz senza possederne l’intensità drammatica. Please Don’t Leave è Robert Smith prima maniera (anche se nel finale s’incattivisce un po’), mentre I Don’t Know How to Love innesta sul loro tipico pattern minimalista una melodia perlomeno evocativa. In the Cold recupera le atmosfere retrò dell’esordio; al contrario, I Need a Doctor e If He Likes It Let Him Do It indulgono in atmosfere spettrali, memori della premiata ditta Curtis/Sumner, con la seconda, in particolare, insolitamente maestosa.

Qualche sorpresa arriva dalla vena kraut di Hard to Love e da Searching for Heaven, che fa perno su un nugolo di keyboard pulsanti ed orchestrali. Ma è davvero troppo poco. Non bastano qualche iterazione ritmica, un paio di chitarre in riverbero o flanger e una manciata di motivetti carichi di naïveté da adolescente depresso per fare di un album un’opera memorabile. Fosse così semplice, i The Drums avrebbero fatto un capolavoro, e non un cumulo d’insulsaggini che sfiorano ripetutamente il plagio quale invece è “Portamento”.

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