The Kooks – Junk of the Heart

Non sono mai stati geniali, i The Kooks, ma almeno ci facevano divertire. Soprattutto nel debut “Inside In/Inside Out”(2006), la loro sbarazzina miscela in salsa brit di garage/hard-rock, pop e folk riusciva a strappare più di un applauso. Le citazioni erano evidenti (Arctic Monkeys, Thin Lizzy, Police, Kinks, Beatles, Faces), eppure il bric à brac stilistico era sorretto da una scrittura che, sebbene non brillasse per originalità, quantomeno evidenziava una certa sapienza nella costruzione di partiture che alternavano ruvidezza sbarazzina e morbida malinconia post-adolescenziali. Un’operazione ruffiana, insomma, ma ci si stava volentieri a quel gioco adulatorio. Anche il seguito, “Konk”, sebbene attenuasse l’impatto e suonasse nel complesso meno fresco, centrava il bersaglio, confermando, per altro, l’abilità strumentale dei brightoniani.

È dunque con estrema delusione che raccontiamo questa terza fatica di Luke Pritchard e soci. “Junk of the Heart” è infatti un lavoro decisamente mediocre, spento, penalizzato da una notevole dose di confusione. L’idea era quella di mettere da parte la componente più elettrica del proprio sound per sciorinare una manciata di ballate semi-acustiche. Peccato, però, che i quattro si siano persi in un mare di banali progressioni pop-folk, patetiche coloriture elettroniche, inutili orchestrazioni e ritornelli forzatamente radio-friendly. Insomma, non c’è nulla che funzioni nel nuovo full-lenght degli inglesi. La title-track, posta proprio in apertura, è l’esempio emblematico di questo fallimento artistico, una nenia insipida propulsa da uno strumming vivace che poggia su un tappeto di synth lievi, il tutto incorniciato da un refrain stucchevolmente ruffiano. E sempre alle classifiche guarda How’d You Like That, dimenticando però che l’ambizione di un artista dovrebbe essere ben altra dal finire nei gradini alti delle top-ten. Rosie intreccia armonie anni ’60 e possenti innesti di tastiere, ma induce allo sbadiglio. Il punto è questo: ogni volta un brano attacca, dopo pochi secondi si sa esattamente dove andrà a parare. Di dignitoso ci sono le sole Eskimo Kiss (che recupera la verve del primo album) e la delicata ballad folk Petulia. Il resto, quando non è insulso (il mid-tempo di Killing Me), velleitario (Time Above the Earth, per voce ed archi classicheggianti) o pasticciato (le pulsazioni sintetiche e le chitarre in levare di Runaway, condita da orchestrazioni e corali isterici, e il mix di synth-pop e garage di Is It Me, che strizza l’occhio a Sting, Summers e Copeland), risulta semplicemente inascoltabile (Taking Pictures of You, Fuck the World Off).

L’involuzione di Pritchard, Harris, Denton e Garred è preoccupante: qui, più che di crisi, parliamo di stato confusionale. I The Kooks oggi sono una band senza direzione, che naviga a vista tentando sincretismi improbabili, un po’ per la scarsa lucidità creativa che il combo attraversa e un po’ perché, in fondo, i quattro non hanno evidentemente talento a sufficienza per poter tentare improbabili fusioni o miscellanee. Però, almeno, un tempo ci facevano divertire…

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