The Rapture – In the grace of your love

C’è qualcosa di vagamente inquietante nella storia della musica. Uno crede che per sfondare, per ascendere all’Olimpo dei grandi, bastino le canzoni ed il sound giusti e, perché no, anche l’immagine appropriata. Poi, invece, a sfogliare bene i manuali ti rendi conto che sono decine le band che sono rimaste confinate nel novero dei “minori”, nonostante capacità ed originalità superiori alla media, o che, più banalmente, e, almeno all’apparenza, senza motivo alcuno, si sono perse per strada, magari dopo un esordio folgorante al quale, tuttavia, sono seguite uscite mediocri, al punto tale che ogni nuovo ritorno provoca una smorfia di disappunto in chi magari, ai “bei tempi”, ne aveva cantato le lodi.

Ecco, i The Rapture rientrano un po’ in questa seconda categoria esemplare. Il loro secondo album, “Echoes” (2003), conquistò la stampa specializzata di mezzo mondo con quel punk-funk da dancehall (il modello? I PIL di John Lydon) che non aveva paura di sporcarsi le mani con il “Madchester-sound“, l’house, il krautrock, la new-wave oscura e nevrotica di The Cure eTelevision o le ballate glam di Bowie e Reed. Un coacervo di stili che inevitabilmente si traduceva in un disco nel complesso forse un po’ disomogeneo ma dotato di un’intrinseca vitalità, di un’energia e di un appeal (merito anche della sagace produzione di James Murphy e Tim Goldswort della DFA) che non potevano passare inosservati. Il successivo “Pieces of People We Love” (2006) fu invece accolto come un mezzo fiasco. L’accusa? Quella di aver tentato di speculare sulla formula passata, ma con molta meno fantasia e grinta – colpa, ipotizzò qualcuno, anche del cambio di guardia dietro la consolle (Danger Mouse, Paul Epworth ed Ewan Pearson, stavolta). A nostro avviso, tuttavia, si tratta di giudizi un po’ troppo severi, rivolti ad un album che cercava scientemente di prendere le distanze da “Echoes”, ricercando sonorità più sintetiche, votate al dancefloor, ed una maggiore coerenza stilistica. Ma tant’è: da “next big thing“, i nostri si trovarono declassati a fenomeno di cartapesta nel volgere di un battito di ciglia

“In the Grace of your Love” era dunque il disco dell'”o la va o la spacca”. E purtroppo, stavolta le cose non vanno sul serio. Luke Jenner e soci si sono sempre accostati al songwriting con un approccio smaccatamente postmoderno, lavorando sul sistema dei generi sino a destrutturarlo, giocando gustosamente con le citazioni, maneggiando topoi sonori che, tuttavia, fusi (e non giustapposti) insieme finivano con l’essere trasfigurati dall’interazione reciproca, dando vita ad un tessuto sonoro variegato, a partiture in grado di scansare il revivalismo più becero, grazie ad una visione ben personale. Ad ascoltare le undici tracce di quest’ultima fatica del quartetto americano, invece, se ne ricava la sensazione di un’accozzaglia di trovate sceniche da due soldi, di miseri trucchi da imbonitori delle piste da ballo. “In the Grace of your Love” è una sorta di monologo con cui la band cerca disperatamente di convincerci di essere la prima della classe non concentrandosi sulla sostanza, ma affastellando una serie di trucchi ad effetto con cui occultare la spaventosa mancanza di idee, l’abuso di luoghi comuni e, conseguentemente, la vacuità del discorso. Tanto per avere un esempio della sterile autoindulgenza in cui sono precipitati i The Rapture, basta ascoltare l’opener, Sail Away, una ballatona sintetica propulsa da battiti dance dal sicuro impatto, grazie ad un piglio epico tra U2 e Killers, la quale chiude alternando un muro imponente di synth “cosmici”, il soliloquio di un sax ed una giostra ipnotica di bassi e tastierine. Tentativo ammirevole di sincretismo: peccato, però, che tutto suoni forzato, come se i vari cambi di pelle costituissero altrettanti comparti stagni e non uno sviluppo armonicamente fluido. Stesso discorso per Blue Bird, che alterna sfuriate kraut/post-punk a languidi passaggi, con lo spettro degli Animal Collective che aleggia sulla partitura. Come Back to Me fonde vocals afro e campionamenti di fisarmonica incastonati in loop ritmici, scarnificandosi e si ricostruendosi in continuazione, senza che ciò, tuttavia, possa impedirci di sbadigliare.

La novità, rispetto al passato, è un maggior spazio alla disco-music e al soul. Le linee vocali di Miss You (il cui andamento e l’uso di un’elettronica sporca ammiccano ai Goldfrapp), la title-track (melodia suadente, contrappunto minimalista di keyboard, basso pulsante e chitarrina in picking), Never Die Again (disco-funky “orchestrale”), How Deep Is Your Love (che piacerebbe ai Beach House) e It Takes Time to Be a Man (una morbida ballad à la Ben Haper, giocata su loop di piano e sei corde, impennate corali e un sax soffuso che s’affaccia nel finale) testimoniano appieno il nuovo corso melodico, ma non riescono ad entusiasmare: del soul qui c’è solo la scocca (sintetica), non l’intensità drammatica, l’emotività sofferta; della disco, giusto qualche citazione di superficie.

Can You Find a Way? è dance di quarta mano; non fa meglio Roller Coaster, che prova a resuscitare lo spirito dei Television incagliandosi però nelle secche di una scialba litania marziale, ben lontana dalle suggestioni lisergiche di Tom Verlaine. A Jenner le cose vanno male anche quando punta espressamente sul mainstream pop ballabile: Children, gioco d’equilibrismo tra acidità e malinconia, si dissolve in un nulla di fatto.

Non c’è praticamente nulla da salvare in “In the Grace of Your Love”, raccolta insulsa di stereotipi senza neppure l’attenuante della coerenza stilistica. Evidentemente non ha giovato il rinnovato contribuito della DFA in fase di produzione. Spiacenti, ma in confronto “Pieces of People We Love” era un capolavoro.

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