Shearwater – Animal joy

Nel 2006 lo splendido Palo Santo inaugurò la “Island Arc Trilogy”, con cui Jonathan Meiburg, una “master degree” in geografia all’Università del Texas e una passione per l’ornitologia e l’esplorazione di luoghi selvaggi, rifletteva sul rapporto tra uomo e natura, inseguendo un’ideale di comunione pànica tra individuo e creato. I successivi Rook (2008) e The golden archipelago (2010), sebbene leggermente inferiori, consolidarono la fama del musicista americano nel circuito ristretto degli addetti ai lavori e dei cultori di certa scena alternative-folk americana, senza tuttavia consentirgli di raggiungere il meritato successo. Troppo complessa e concettuale, l’operazione, per soddisfare i palati delle grandi masse. Neppure ha aiutato, poi, il fatto di esser cresciuti in un certo senso all’ombra degli Okkervil River. Eh già, perché la prima incarnazione degli Shearwater comprendeva, oltre a Meiburg (egli stesso tastierista della band texana), lo stesso Will Sheff. Le strade dei due si separarono ufficialmente nel 2008, dopo sette anni di proficua partnership, ma già dai tempi di Palo Santo era Jonathan il dominus del progetto. Poco male, però: Meiburg e compagni (la bassista, ed ora ex moglie, Kim Burke e il batterista/vibrafonista Thor Harris) sembrano non risentire della scarsa popolarità. E finché il risultato saranno album come Animal joy, be’, neppure noi avremo tanto di che lamentarci.

Il disco segna il passaggio dalla Matador alla Sub Pop e si configura come uno dei più immediati e diretti mai incisi della formazione, quasi una reazione al barocchismo del suo predecessore. Conclusa la trilogia del regno vegetale, l’LP sembra voler inaugurare un nuovo capitolo dell’esplorazione naturalistica del frontman, stavolta dedicato al regno animale, inquadrato sempre sotto la luce dell’allegoria. La riflessione verte sulla profonda essenza della natura umana, sulle gabbie mentali e sociali che ci costruiamo. L’obiettivo è la “animal joy”, la gioia animale, dunque una sorta di “liberazione”: ma per realizzare appieno la tanto auspicata comunione con la natura, occorre raggiungere quella «half remembered wild interior / Of an animal life» (Animal life), se necessario rimettendo in discussione la stessa civilizzazione («You could drive the mountains down into the bay / Or go back to the East where it’s all so civilized / Where I was born to the life / But I am leaving the life», dichiara il cantante in You as you were). E in effetti la stessa sobrietà degli arrangiamenti, lontani dallo spirito “bombastic” di The golden archipelago e spesso imperniati su ritmiche scattanti e chitarre sferraglianti, fa pensare proprio al tentativo di recuperare, almeno in parte, un’istintività sonora libera da inutili orpelli. Non per questo, però, la settima release dei texani suona banale o piatta. Emerge, semmai, una capacità di sintesi e di “concentrazione” che non concede nulla alle banalità di certa scena indie contemporanea e si ricollega, sul piano ideologico, alla purezza cristallina dei primi album.

Rispetto al passato si segnala una matrice più marcatamente post-punk/new-wave, particolarmente evidente in Immaculate, memore dei The Sound, ma anche in Pushing the river (che incorpora elementi folk su un pattern ritmico scattante, sfregiato da immani devastazioni chitarristiche), nella darkeggiante Breaking the yearlings (spettrale e tempestosa danza propulsa da battiti oscuri, ammantata da un organo sinuoso e sfregiata da sei corde distorte), nella pigra e solenne Dread sovereign e in You as you were (dominata da un pianismo martellante e da un incedere che fanno pensare agli Arcade Fire). Tutt’altro che impersonali, questi pezzi rinnovano il vocabolario della band, portando alle estreme conseguenze alcune tensioni che si respiravano qua e là nei precedenti lavori. Animal life, dal canto suo, è un folk-rock in crescendo che sfrutta una progressione degna degli Elbow, appena increspata da una celesta obliqua, iniettandovi le ormai consuete dosi di nevrosi ritmiche. Open your houses (Basilisk) e Believing make it easy confermano la vicinanza di Meiburg a Mark Hollis e al suo “spirito dell’Eden”, mentre Run the banner down rispolvera l’arsenale acustico di certi episodi del passato, intessendo una melodia preziosa, carica di malinconico abbandono. La maestosa Star of the edge e la melodrammatica Insolence (con qualche eco radioheadiano nelle linee di piano) sono altri esempi di come un impianto grandioso non necessariamente significhi pomposità ottusa.

Animal joy è l’ennesimo tassello di una discografia preziosa, con cui Meiburg continua ad intonare la sua personale ode post-moderna alla natura e a cantarne il fascino lussureggiante, misterioso, primigenio, guidato da un “sentimento oceanico” di freudiana memoria, un’idea di comunione col tutto che lambisce una forma di misticismo laico eppure potentissimo.


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