Tomas Alfredson – La talpa

La “talpa” al centro di questo nuovo film di Thomas Alfredson è una spia che, secondo Controllo, capo dell’MI6, i sovietici sarebbero riusciti ad infiltrare ai vertici dei servizi segreti (siamo nel 1974, in piena guerra fredda). L’uomo affida allora ad un agente, Jim Prideaux, il compito di stabilire un contatto con un generale ungherese, disposto a parlare. L’incontro, tuttavia, si rivela una trappola e Prideaux viene ferito. L’incidente costa il posto a “Controllo” e al suo braccio destro, Smiley. Questi, tuttavia, poco dopo viene richiamato ufficiosamente in servizio dal sottosegretario Lacon, allarmato da una telefonata di Ricki Tarr (un agente accusato di diserzione), il quale parla di una traditore ai vertici del “Circus” (da Cambridge Circus, la via di Londra in cui la sceneggiatura colloca fittiziamente gli uffici dell’intelligence britannica).

Comincia così un’indagine alquanto complessa, che porterà a galla una serie di menzogne, falsità e doppi giochi. Alfredson ricompone il mosaico con lentezza, sistemando con cura certosina ogni tessera. Se pensavate ad una spy-story sul modello James Bond avete sbagliato completamente. Smiley, paziente, riflessivo, malinconico (magnificamente reso da Gary Oldman), è tutto l’opposto del fascinoso 007. Dietro lo sguardo impassibile e i modi sempre misurati si nasconde una sofferenza che solo di tanto in tanto trapela: Ann, la moglie, lo ha tradito e poi abbandonato.

Quello de La talpa (ispirato all’omonimo romanzo di John Le Carrè) è insomma un mondo solo in superficie ordinato (due blocchi, capitalistmo vs. comunismo, bene vs. male), ma in realtà eroso da un rio carsico di intrighi e bugie che si moltiplicano esponenzialmente. In questo labirinto, Smiley e i suoi colleghi si muovono con apparente padronanza; l’impressione, tuttavia, è che siano anch’essi pedine di un gioco la cui portata non comprendono realmente.

Chi invece conosce perfettamente il disegno totale è Alfredson, che dirige lo spettacolo con sapienza. Movimenti di camera minimi, ellissi, raccordi con voce fuoricampo, flashback: sono tutti artifici che spezzano il racconto, rinforzando l’impressione di un mondo in frantumi e costringendo lo spettatore a ridefinirne di volta in volta le coordinate. La fotografia ovattata, che evita accuratamente i contrasti cromatici e chiaroscurali, e il commento sonoro discreto di Alberto Iglesias, arricchiscono di ulteriori suggestioni un film intenso, impeccabile nel suo raccontare le opacità di un’epoca in cui i contorni delle cose erano molto meno netti di quanto abitualmente si creda.

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