Clint Eastwood – J. Edgar

Chi è J. Edgar Hoover? Un demiurgo, un politico, capo dell’FBI per mezzo secolo sotto otto Presidenti americani, un uomo in bilico tra il rapporto morboso con la madre da un lato, e la tenerezza privata omosessuale dall’altra. Non è facile rintracciare un genere nell’opera (purtroppo non riuscita) di Clint Eastwood. Un biopic, forse, ma che resta difficile da digerire pienamente. Comprensibile, comunque, la difficoltà di creare una sorta di fotografia del personaggio, interpretato magistralmente da un Di Caprio appesantito, però, dall’eccessivo trucco, che ha rischiato di sminuire il personaggio stesso, come se si raccontasse un ballo mascherato.

Eastwood sceglie di mescolare la dimensione del privato e quella della “res pubblica”, ma l’equilibrio rincorso spesso rischia di smarrirsi. Helen Gandy (Naomi Watts), prima di essere la compagna di Hoover, risulterà essere la segretaria e custode dei segreti più indiscreti della vita politica privata americana. Si scopre quindi la figura del capo dell’FBI innamorato di un uomo, Clyde Tolson (Arnie Hamere). Ed è indubbiamente la figura di Edgar a prevalere, alla fine, nello script. La pellicola (ben 137 minuti di durata) mette a nudo il personaggio nella sua doppia fragilità e incorruttibilità. Il senso di tenerezza che si scioglie nel rapporto tra Hoover e Tolson raggiunge la sua forma privata più alta nel momento in cui Clyde recupera ai piedi del letto il corpo freddo e pesante di Edgar. È proprio alla fine della sua vita che Hoover comprende il gesto del donarsi agli altri, come non ha mai fatto nel resto della sua esistenza.

In J. Edgar si intrecciano due personalità del protagonista, ossia quello che è e quello che non è potuto essere. Purtroppo, è proprio il trucco pesante che rende il tempo assente e il corpo invecchiato un contenitore artificioso, che nega, forse, quel senso di “sporco” che invece avrebbe reso il film molto più digeribile, più vero. Nel corso dei suoi mandati, Hoover ha dichiarato guerra alle infinite minacce nel nome di un’ossessione per la sicurezza. Il punto è che da J. Edgar emerge solamente il carattere tenace del capo dell’FBI, la sua ossessione per il controllo. Forse Dustin Lance Black, autore della sceneggiatura, si è perso tra i segreti e gli intrighi di Hoover e non è riuscito a consegnare allo spettatore tutta la complessità della vicenda della quale egli fu al centro. In particolare, non si è riusciti ad intrecciare in maniera coerente i giochi pericolosi e segreti dei politici dal 1919 fino all’era Nixon. Eastwood esagera nel narrare gli aspetti strani della vita privata di Edgar, tra ambizione e mancanza di scrupoli. Probabilmente il film andrebbe riletto in una chiave psicologica, magari rispolverando i saggi sulla teoria sessuale elaborata da Freud, secondo il quale esisterebbe un link diretto tra lo stato di paranoia e l’omosessualità: importante, in tal senso, l’attaccamento della madre di Hoover, che lo condiziona fin dall’infanzia. Un argomento questo forse sottovalutato dal regista di Changeling. Nel tentativo di srotolare la matassa intricata del potere e della biografia di Hoover (mistificatore, narcisista, vendicativo), si mette in scena invece un insieme di eccessi, contraddizioni e deviazioni che non rendono il personaggio credibile, col rischio di ridicolizzarlo, come fosse una caricatura grottesca.

Traspare dall’opera l’ossessione di poter controllare tutto e tutti attraverso un sistema centralizzato e capillare di indagini nel privato, tra file segreti (mai ritrovati) e armadi presidenziali. Hoover si trova nel corso della sua lunga vita ad affrontare il proibizionismo, il gangsterismo, la grande depressione del ’29, tra minacce reali e immaginarie. Negli anni Settanta, quando morirà sotto la presidenza Nixon («finalmente quel vecchio succhiacazzi se n’è andato»), la vera battaglia la compie Helen. Fu proprio lei che ebbe la forza e il coraggio (al contrario di Edgar) di far sparire tutti i dossier contenenti i segreti di Presidenti su cui voleva mettere le mani Nixon. L’amante Clyde, invece, non fa altro che piangere sul cadavere del povero Hoover, ma la scena non emoziona, anzi quasi provoca un leggero fastidio.

Hoover racchiude in modo anche “allegorico” l’immensa storia americana, la riorganizzazione dell’FBI, ma tutto è realizzato ciò con troppo cinismo e poco coraggio. Troppe parole costruiscono una trama zoppicante, la quale, quando Edgar ascende ai vertici del potere, scivola in una narrazione confusa, noiosa. Meno trucco e più verità e si sarebbe riusciti nell’impresa di narrare una figura complessa e contorta come quella di J. Edgar Hoover.

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