Andrew Bird – Break it yourself

«Un mix di canzoni semplici e concise», registrate su un quattro piste, nel nome di una «rude onestà»: così Andrew Bird, lo scorso gennaio, descriveva il suo nuovo lavoro, Break it yourself, il settimo da solista. Tuttavia, trattandosi dell’ex Squirrel Bait, non ci si poteva certo attendere un disco facile facile: e infatti, le tracce del successore di Noble beast (2009) suonano falsamente lineari, ricche come sono in realtà di cambi di tempo, intermezzi, assoli e, più in generale, di tutta una serie di coloriture che rendono l’insieme sofisticato ma non snob, articolato ma non barocco.

Desperation breeds… apre le danze tra cori di voci lontane, arpeggi acustici e pizzicati di violini, immergendoci in un’atmosfera quasi incantata, intrisa di una nostalgia tenue, che lo splendido fraseggio degli archi ammanta di una sorta di solennità. Anche Danse caribe sfodera un incipit in chiave “minore” (tra il Van Morrison di Madame George e il Paul Simon solista), salvo poi giocare con sonorità calypso e celtic-folk: un pastiche che ben riassume lo spirito di Break it yourself e il suo tentativo di cercare l’immediatezza senza lasciarsi intrappolare dalla banalità – anche quando si tratta di filastrocche graziose, come nel caso di Give it away, che tradisce la naiveté iniziale con un eccentrico intermezzo. Fatal shore e Lusitania puntano invece su aromi alt-country, con la seconda che si avvale della partecipazione di Annie “St. Vincent” Clark, mentre Eyeoneye è un energico motivetto “indie” che pare uscito da Armchair apocrypha (2007). Gli oltre otto minuti dagli aromi timbuckleyani di Hole in the ocean floor e il commiato in punta di piedi di Belles accentuano la dimensione quasi metafisica del sound di Bird.

Quella dell’americano, insomma, è avanguardia travestita da pop, una musica che cela dietro un candore disarmante armonie sfaccettate, complesse, mai così immediate come un ascolto superficiale potrebbe suggerire. Tradizione e modernità convivono in queste meditazioni sulla memoria, la Storia e la precarietà dell’esistenza, condotte con una grazia ed un’eleganza fuori dal comune. Certo, Break it yourself non aggiunge nulla di nuovo al repertorio di Andrew, questo va detto. Eppure, paradossalmente, proprio un disco come questo ne conferma il talento limpidissimo: anche quando non osa più di tanto, Bird riesce comunque ad incantare. Roba da fuoriclasse, insomma.

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