Angel Witch – As above, so below

Il destino si è dimostrato particolarmente ingrato nei confronti di Kevin Heybourne. È probabile, infatti, che a molti il nome Angel Witch non dica quasi nulla. Eppure, dietro l’omonimo debutto pubblicato nel 1980, la cui storica copertina raffigurava una delle opere più tenebrose della pittura romantica inglese di metà Ottocento, affidata ai colori apocalittici dell’artista albionico John Martin, si nasconde senza ombra di dubbio una delle formazioni di punta della scena metal inglese.

Le chiamano “band di culto”, e malgrado il termine sia stato spesso oggetto di accostamenti forzati o di un utilizzo smodato, nel caso degli Angel Witch pare quasi obbligatorio adoperarlo. La storia di quell’esordio, divenuto nel corso del tempo pietra preziosa e tassello fondamentale nella discografia di un intero genere, è la storia di un album che ha definito le coordinate di un intero movimento. E non soltanto a livello di tematiche, per altro tutte liricamente legate a scenari diabolici e infernali.

Le canzoni grondavano potenza, melodia ed erano eseguite da un power-trio in grado di amplificare ogni singola nota rendendola dieci volte più pesante e più cruda, un po’ alla maniera dei rozzi Motörhead, ma con una dose di fantasia e profondità superiore a quella di tante altre band della New Wave of British Heavy Metal. La loro stessa formula musicale era un’alchimia incendiaria tra la brutale pastosità dei riff pachidermici di Black Sabbath e Witchfinder General e l’epica rocciosità dei migliori Judas Priest. Cosa non abbia realmente funzionato subito dopo la prima release non è ben chiaro.

La storia narra che il trio si frantumò improvvisamente, lacerato da conflitti interni, ed Heybourne (personalità solitaria e burbera, appassionato di occultismo, carisma da mago e capelli biondi da angelo) continuò a pubblicare album che, pur essendo quasi sempre abbastanza ispirati, non riuscirono mai più a ripetere l’incanto gelido e nero di quel debutto. Del resto, stiamo parlando di quello che, a più voci, viene ancora oggi acclamato come un “manuale esemplare del perfetto album heavy-metal”, scritto interamente (musica e testi) da una sorta di “stregone tuttofare”, colpevole soltanto di non essere riuscito a conquistarsi la giusta dose di visibilità commerciale.

È curioso che la band abbia scelto, per questo gradito ritorno discografico (l’ultimo album di studio, Frontal assault, risale al 1986), di utilizzare, proprio come nel caso dell full-lenght del 1980, un’altra delle splendide opere di Martin, ovvero The last judgement. Questa sorta di riconnessione grafica e visiva col passato è completata da una di natura musicale. Le tracce, infatti, si muovono tra passato e presente, vista la scelta di affiancare a materiale nuovo di zecca anche canzoni risalenti alla prima metà degli anni Ottanta (1983-1984 per la precisione), qui rielaborate secondo una nuova veste sonora. Una storia curiosa riguarda, invece, Into the dark e Guillotine, entrambe scritte all’epoca dell’esordio della band, ma pubblicate soltanto oggi per la prima volta.

Quello che ci aspettavamo dagli Angel Witch, dopo ventisei anni di silenzio assoluto (interrotto solo da live e compilation di scarso peso), si è puntualmente verificato: melodie compatte e uno strepitoso canovaccio a base di bordate metal incandescenti, all’insegna di una produzione curata e moderna. Eloquenti, in tal senso, le splendide falcate di Upon this cord e Brainwashed, in cui riecheggiano il sound caratteristico del metallo british, sempre ben attento a bilanciare cantabilità e potenza. Più precisamente, la prima sfodera in pertura una cadenza pachidermica da doom sabbathiano per poi trasformarsi, a colpi di riff spettrali e inquieti, in una saetta incandescente, rapida e imperiosa; la seconda, invece, è una galoppata heavy di circa sette minuti, sorretta da dinamiche strumentali quasi progressive, che segna il vertice assoluto dell’album, regalandoci una fantastica performance muscolare, a colpi di stacchi e melodie ruggenti. Splendida, a tal proposito, anche Dead sea scrolls dove i nostri si diverto ad intessere un’avvicente coda melodica, rifinendo un’atmosfera a metà tra l’epico e il maledetto.

Il materiale nuovo e quello vecchio si completano a vicenda, siglando un idillio di notevole rilevanza e evitando soprattutto il pericolo dell’anacronismo. Non c’è ruggine che possa attecchire su nessuna di queste otto perle di lavico splendore: anche le scariche di Witching hour e Guillotine, che rimandano all’epoca in cui era il metal britannico a dettar legge, appaiono sorprendentemente più attuali di tanto inutile rock duro odierno.

As Above, so below conferma insomma la bontà del marchio Angel Witch. Non ci resta che augurare a Kevin Heybourne di riscuotere finalmente i crediti che molte altre band hanno nei suoi riguardi, sperando che, almeno per stavolta, il mondo non scelga di ignorarlo.

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