Simon Curtis – Marilyn

1956. Marilyn Monroe giunge in Inghilterra per girare Il principe e la ballerina assieme al grande Laurence Olivier, anche regista. Durante le riprese, l’attrice conosce un giovane di buona famiglia con la passione del cinema, Colin Clarke. Fragile e disperata lei, romantico e innocente lui, tra i due nascerà una grande amicizia che lo stesso Clarke, divenuto in seguito scrittore e filmmaker, riverserà in un libro, The prince, the showgirl, and me (in italiano, La mia settimana con Marilyn, edito da Mondadori). Ed è a quei diari che Simon Curtis si è ispirato per la sua pellicola. Regista televisivo, qui al suo debutto per il grande schermo, Curtis ha confezionato un lavoro elegante, godibilissimo, che ha nell’impressionante performance mimetica di Michelle Williams, nei panni di Norma Jeane Baker (vero nome della Monroe), il suo punto di forza. Non che il resto del cast sia da scartare: Kenneth Branagh è un ottimo Olivier, Eddie Redmayne convince nella parte di Clarke, e gli altri (per esempio Judi Dench e Julia Ormond) sono più che esemplari. Ma la prova della trentaduenne americana è di quelle che non si dimenticano: non è tanto la somiglianza fisica ad impressionare, quanto piuttosto il lavoro sulle movenze, sullo sguardo, sul tono di voce, a lasciare esterefatti.

 

La Williams, dunque, inscena alla perfezione il dramma di una ragazza vampirizzata dallo show-biz, imprigionata in un’immagine (quella della bambolona sexy) che non le appartiene. Condannata ad essere sempre e solo Marilyn, la diva che fa impazzire gli uomini, e impossibilitata ad essere semplicemente Norma, la ragazza di L.A., la Monroe mostra il suo lato più debole al giovane terzo assistente alla regia, Clarke, il quale le sta accanto durante la lavorazione de Il principe e la ballerina (uscito poi nel 1957), soprattutto nella settimana seguita al (temporaneo) ritorno negli USA dell’allora marito di lei, Arthur Miller. A fare da sfondo, il rapporto con Olivier, fatto di incomprensioni e reciproca ammirazione, legame che trascende la dimensione personale per configurarsi come conflitto generazionale, scontro culturale (la vecchia, impettita Europa vs. i più “giovani” USA) e confronto tra due modi diversi di intendere la recitazione: il “metodo” di Marilyn, che Olivier tanto avversa, altro non è che l’ennesimo tentativo della protagonista di cercare un po’ di verità, di autenticità, in un mare di finzione.

 

Il film ci consegna l’immagine di una diva “per forza” e non per scelta, di una creatura debole, profondamente insicura anche di quel talento che tutti le riconoscevano, schiava di alcool e tranquillanti. Una donna che, pur avendo il mondo ai suoi piedi, non sa che farsene, non lo vuole, e nel cui sguardo, malgrado il sorriso e le smorfie ostentate, si leggono gli oscuri presagi di un destino che, da lì a sei anni, la porterà via, consegnandola alla storia.

 

Curtis maneggia la materia narrativa con una discreta abilità, sviluppando l’amicizia tra Marilyn e Colin con scioltezza e raccontando il travaglio dell’attrice con sincera partecipazione. Certo, la pellicola non è esente da qualche sbavatura, da qualche eccesso patetico, da qualche cliché: quasi inevitabile quando ci si misura con un simile personaggio, la cui biografia ha connotati decisamente tragici (l’infanzia nelle case-famiglia, i tre disastrosi matrimoni, la solitudine, il suicidio). Nonostante tutto, però, Marilyn rimane un buon film, sofisticato nella messinscena ma mai freddo, drammatico ma non lacrimevole e per di più nobilitato da una prova attoriale che, oltre al Golden Globe, avrebbe sicuramente meritato la benedizione dell’Oscar.

SOSTIENI LA BOTTEGA

La Bottega di Hamlin è un magazine online libero e la cui fruizione è completamente gratuita. Tuttavia se vuoi dimostrare il tuo apprezzamento, incoraggiare la redazione e aiutarla con i costi di gestione (spese per l'hosting e lo sviluppo del sito, acquisto dei libri da recensire ecc.), puoi fare una donazione, anche micro. Grazie