Fang Island – Major

Il dilettantismo è una brutta piaga. Ad improvvisarsi bisogna esser bravi, mica è da tutti. L’etica del “do-it-yourself”, del “chiunque può farlo”, ha prodotto frutti notevoli in epoche ormai (culturalmente) lontane, ma grazie ad un fraintendimento di comodo: tanti tra punk-rocker e new-waver forse non erano in grado tenere in mano una chitarra, ma avevano una visione, sapevano dominare la propria pulsione espressiva e darle una forma compiuta, in cui la confezione approssimativa era parte del gioco di decostruzione, smascheramento e annichilimento delle banalità “rockiste” degli anni ’70 più lambiccati. L’impressione, invece, è che buona parte dell’indie odierno viva di bagliori occasionali, fuochi che s’accendono e si spengono in un battito di ciglia rimanendo, peraltro, isolati, slegati. Un circuito autoreferenziale, pretenzioso e un po’ naïf, di cui questo LP dei Fang Island è il perfetto riassunto.

Il secondo lavoro (l’omonimo debut è del 2010) del trio americano di stanza a Brooklyn macina accordi e melodie muovendosi goffamente lungo il crinale che separa l'(auto)ironia dalla mania (intesa più che mai come ossessione) di grandezza. Sisterly, ad esempio, propende per la prima, sfoderando una nenia college-rock alla Weezer, ma sotto sotto Jason Bartell, Chris Georges e Marc St. Sauveur sembrano voler puntare in alto: altrimenti non si spiegherebbero certe tentazioni prog-strumentali che assimilano in vorticose quadriglie folk irlandese, aromi afro e irruenza metal (Dooney rock). Il fatto, però, è che anche la pomposità granulosa di Chime out non può far altro che constatare l’incapacità di realizzare quella fantasia di maturità che costituisce il nucleo più o meno conscio dell’album: l’energia heavy di Seek it out rimane confinata entro i rassicuranti perimetri di un pop adolescenziale, così come le potenzialità da jam di Asunder. Del resto, che la dimensione in realtà prediletta dal trio sia quella infantile lo dichiara appieno Kindergarten: «All I know / I learned in / Kindergarten», «tutto ciò che so l’ho imparato all’asilo», recita il refrain, e francamente, ad ascoltare lo scherzo di piano minimalista e chitarre armonizzate che scorre sotto (o, più in avanti, gli esotismi pop-rock di Make me), c’è poco da dubitarne. Se poi un intero brano (Never understand) poggia su una frase come «I hope I never understand», appare evidente come, al di là degli intenti sbandierati, manchi un’effettiva volontà di crescita. Ecco, abbiamo sciolto il nodo: i Fang Island hanno inciso Major («maggiore…») in preda ad una sorta di scissione. Da un lato, l’intenzione (generata da una spinta sociale) di diventare grandi, dall’altro, a far da freno, l’attrattiva irresistibile per la spensieratezza della minore età. Dal cortocircuito, Bartell, Georges e St. Sauveur hanno tratto un prodotto insipido, che anche quando si sporca le mani con il kitsch non strappa più di un debole sorriso.

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