Riconosciuto come uno dei capolavori di Franzis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby è il romanzo simbolo dei cosiddetti “Roaring Twenties”, i dieci anni che negli Stati Uniti precedettero la crisi economica del ’29: anni di sfarzi, abbagli e pericolose illusioni. Uscito nel 1925, il lavoro di Fitzgerald racconta il lusso e riflette sul miraggio della felicità, ma sorprende perché capace di giocare d’anticipo nel prefigurare la scadenza prossima di un’atmosfera da sogno.
Non si sfugge alla drammatica ciclicità degli eventi e chiunque sa che ogni sbornia è una gioia effimera, tristemente seguita da una giornata di postumi. Vale così per la storia, l’economia, la vita. Vale così per Jay Gatsby, l’ingombrante protagonista del romanzo, impegnato a barcamenarsi tra vita mondana e festini mirabolanti organizzati per attirare l’attenzione su di sé e perseguire un sogno irraggiungibile: quello di riconquistare il suo unico amore, Daisy. Sposata con il milionario Tom Buchanan, Daisy è la spinta vitale e mortale di Gatsby, è desiderio – lo suggerisce anche il nome – che dà senso all’esistenza di solitudine del protagonista.
Proprio per competere col nuovo marito di lei, da povero, Gatsby riesce ad arricchirsi e, in perfetto stile “Sogno americano”, imbastisce la sua ricerca della felicità. Ma la scalata del magnate, proprio come quella della società statunitense dell’età del jazz, è accumulazione bulimica destinata a sfasciarsi e a perdersi nell’assenza di un solido sistema di valori.
Il grande Gatsby è quindi un romanzo sulla decadenza che, necessariamente, contagia e irrora la frenesia che sospinge la gioia del progresso e della conquista. Perfettamente inserito nel contesto storico da cui trae linfa, l’opera di Ftizgerlad, connotata da uno stile narrativo felicissimo e da un intreccio sorprendentemente innovativo, racconta la storia universale dell’ascesa e della caduta, del tragico altalenare a cui sono soggette società e natura umana.