…And You Will Know Us by the Trail of Dead – Lost songs

Se l’intento era, come era, quello di «combattere l’apatia verso gli eventi del mondo che piaga la scena della musica indipendente ormai da più di un decennio» (parole loro), gli …And You Will Know Us by the Trail of Dead l’obiettivo l’hanno raggiunto appieno. Se invece lo scopo era semplicemente quello di fare un gran disco, pure. Geometrie rigorose, furia punk, slanci epico-lisergici, impegno politico: in queste dieci “canzoni perdute” c’è tutto il meglio della premiata ditta composta da Jason Reece e Conrad Keely, genuini interpreti della tradizione post-hardcore washingtoniana (Fugazi l’avete detto voi…) con un tocco noisy, uno grungy, un’altro di psichedelia e via discorrendo – con, insomma, l’aroma genuino dell’indie che è ancora “indipendente” e non posa da hipster di seconda mano.

Lost songs è l’ottavo capitolo di una discografia impeccabile, ed è quello con meno fronzoli, un fuoco di sbarramento di batterie marziali, galoppate di basso e riff ipnotici, tutt’altro che ottuso, però. Pinhole cameras e Up to infinity, per quanto tirate, mostrano anche una notevole dose di cervello, rallentando il passo quando serve, magari indulgendo a qualche arpeggio visionario o cedendo a languori da “gioventù sonica”. Le ispirazioni sbandierate in un post apparso sul sito ufficiale della band sono tante ed estremamente eterogenee: Cure, KARP, Ros Sereysothea, Human League e Hildegard von Bingen. La dedica, però, è alle Pussy Riot, e non poteva essere altrimenti. La militanza è dichiarata, si confronta con la realtà (la succitata Up to infinity, ad esempio, parla della guerra siriana). Nelle mani altrui la satira feroce di Catatonic (racconto delle gesta del fantomatico politico USA Rich Dobney, tra festini, alcol, droga e tanta ipocrisia) si sarebbe trasformata in uno scherzetto innocuo o, per contro, in un’arringa noiosa: i Trail of Dead, invece, mantengono il giusto equilibrio tra sdegno, musicalità e sofisticatezza. La tensione, declinata in chiave eroica, passionale (gli spasmi finali di Heart of wires sono degni dei Pearl Jam), non si smorza mai: i texani ci lasciano Awstruck, sgomenti, anche ai bassi regimi (Flower card games e Idols of perversity), dimostrando come si possa evocare la tempesta senza inscenarla mai e non perdere per questo in efficacia.

Ai Trail of Dead hanno raccontato che il ’68 è morto e l’Utopia finita, ma loro non ci stanno. Le “canzoni perdute”, qui, sono i singulti di rabbia di una generazione che, cresciuta nel mito fasullo del pragmatismo capitalista, avverte ancora il richiamo lacerante della responsabilità, del Sogno, ma senza nostalgie. Già che ci siamo, Lost songs è pure uno sputo lanciato a velocità supersonica contro l’indifferenza – anche stilistica – di una scena rock sempre più involuta, chiusa nella celebrazione ostinata delle propria vuota carineria, mentre intorno il mondo va in frantumi.

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