RNDM – Acts

Dici Jeff Ament e subito tornano in mente gli anni ’90, le camice a quadrettoni, Seattle, le chitarre in fuzz, la rabbia & la psichedelia, la “Generazione X”. Mother Love Bone, Temple of the Dog, Pearl Jam. RNDM (si legge “random”) è la sua nuova creatura, sua e di altri due reduci dello scorso ventennio: Joseph Arthur, menestrello alt-folk scovato da Peter Gabriel (massì che lo conoscete, provate a cercare In the sun o Honey and the moon su YouTube e vedrete…), e Richard Stuverud, batterista, ex Fastbacks. Tutto è nato – lo dice il monicker stesso – da un incontro casuale: nel giugno del 1999, Arthur aprì un concerto a New York dei Thee Fish, il side-project dei due futuri compagni d’avventura. Poi più niente fino al 2010: dopo uno show a Seattle (guarda un po’…), sponsorizzato dall’emittente radio KEXP, Arthur ricevette l’invito di Ament a raggiungerlo nella sua casa del Montana per una jam assieme a Stuverud. Da lì, i tre tirarono fuori la prima canzone.

Le premesse, insomma, non erano delle migliori: facevano presagire un esercizio nostalgico, ozioso come tutti gli amarcord. E invece no, perché Acts suona bello fresco, concentrato, convincente.

Lontane dagli stereotipi hard american-rock cui gli ultimi Pearl Jam sono accostabili (ma anche da certe recenti cadute free-form di Artur, vedi Redemption city), le dodici tracce si muovono entro il perimetro di un pop elettrificato, tra reminiscenze “college” (Modern times), U2 (What you can’t control), sfumature grunge (The disappearing ones), slanci “indie” à la Grant Lee Buffalo (Darkness), vertigini psichedeliche (Hollow girl) e tentazioni acustiche dylaniane (l’armonica in chiusura di Cherries in the snow). Il sound è dunque morbido, rotondo, con il basso di Ament groovy in modo sornione, i tamburi scattanti ed essenziali di Stuverud e la chitarra di Arthur che non cerca (quasi) mai l’imposizione del riff o dell’assolo, preferendo ritagliarsi spazi in progressioni armonico-ritmiche corali. Certo, Look out e Throw you to the pack spingono sul piede dell’acceleratore, ma si tratta, in fondo, dei momenti meno interessanti: la vere sorprese, qui, si chiamano Walking through New York, cantilena in odor di new wave carica di spleen metropolitano, e New tracks, che si abbevera alla fonte del folk-pop ma senza melensaggini.

Il wah-wah e i bonghi di Willamsburg rimandano ai Rolling Stones, agli anni ’60 e via discorrendo, ma anche qui, l’effetto-macchina del tempo è scansato. Acts è un piccolo, grande disco, umile come certi manufatti artigianali eppure dotato di una classe ed un’eleganza, di una raffinatezza, inaspettati. Dopo Divine Fits e David Byrne-St. Vincent, un’altra bella unione di super-cervelli targata 2012.

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