In questa storia tutto è diverso. La cecità è senza retoriche e senza commiserazioni, né carità. C’è il regno duro e spietato dei ciechi, che ti lascia senza fiato dopo un terzo del libro. E noi, che passiamo la vita a guardare negli occhi la gente sperando che quello sia l’unico posto dove esiste ancora un’anima, siamo perduti come quegli occhi, perché dell’anima non c’è più traccia.
Che strana la cecità di Saramago: così paurosa e così affascinante. In questo libro non c’è tempo e non c’è luogo. C’è invece un’inspiegabile epidemia che colpisce l’intera popolazione, di colpo avvolta in una nube color latte. La psicologia cede all’incertezza, la convivenza sociale cambia di colpo. Ora regna la barbarie e l’unico metro di valutazione è l’istinto di sopravvivenza, il soddisfacimento dei bisogni primari. L’autore crea un racconto fantastico che è metafora di un’umanità che ha perso ogni punto di riferimento, che sbanda non nell’oscurità, ma nel biancore più totale.
Cecità è un capolavoro per l’idea di base, per la struttura narrativa, e per il rapporto empatico che riesce a creare col lettore, che si sente proprio come la moglie del dottore, vedente nel gruppo degli sventurati, ma devastata dal dubbio, dalla paura, dal senso di colpa per vedere ancora. Quando scopriamo che l’anima è cancellata insieme alla vista, anche noi vorremmo annegare in quel biancore, per non sentire quanto rumore fa l’istinto animale, la cattiveria, la bestia che c’è in noi. Saramago riesce benissimo ad immaginarci (tutti noi) come poveri ciechi che vagano senza senso, rinchiusi mentre sottostiamo a regole che ci vengono imposte dall’alto (da un Governo aleatorio e precario) e che solo apparentemente servono da deterrente alla malattia: in realtà sono forme di ghettizzazione in cui i più deboli soccombono.
Riflettiamo anche su come la natura, buona o cattiva che sia, trionfa sempre sull’uomo, decide tempi e modalità. Più forte delle forme di socializzazioni alternative che si danno i ciechi in questa storia, e più forte anche delle forme repressive del Governo. Spetta alla natura, nel finale del libro, ridarci la vista con un pizzico di positività; e sempre alla natura spetta il compito di ributtarci nell’incertezza. Cecità è un libro che fa perdere le coordinate, che non guarda in faccia alla santità (anzi le copre gli occhi e la rende al pari degli uomini) e non dà risposte, perché le risposte non arrivano quando sono necessarie, e aspettarle, a volte, è l’unica risposta possibile: «Perché siamo diventati ciechi, forse un giorno si arriverà a conoscere la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono».