Craxi – Dentro i battimenti delle rondini

«Craxi» è una brutta parola. Evoca un immaginario unto di corruzione, malaffare, un regno patinato ed euforico, quello degli anni ’80 italiani, con capitale a Milano (da bere) e sede negli studi di Cologno Monzese. Lì, in quel colossale buco nero del buongusto, prima ancora che della legalità, finirono le scorie di un benessere frainteso (l’Italia del boom), che nel frattempo già aveva mostrato il suo lato peggiore con i ’70, gli “anni di piombo”. Smarrimento, vuoto esistenziale, alienazione: l’aria era irrespirabile. E dunque il disco di una band che ha scelto di battezzarsi con il nome di un uomo divenuto simbolo di una stagione così deteriore non poteva che essere esattamente quale è: (emotivamente) insopportabile.

Nate dall’incontro di Alessandro Fiori, Enrico Gabrielli, Luca Cavina e Andrea Belfi (tutti nomi di punta della scena indie nostrana), le dieci tracce di Dentro i battimenti delle rondini si muovono sospinte da spasmi post-punk, noise e post-rock. Privo di reale vitalità, il loro è un moto nervoso, una specie di colossale riflesso post-mortem. Non a caso, stiamo parlando del disco di una band che non c’è più: le tracce sono state pensate e registrate tra il 2009 e il 2010, e nel frattempo il gruppo s’è sciolto, senza troppi clamori. Il che, inevitabilmente, accresce la suggestione “documentale” intorno all’album, un “messaggio in bottiglia” il quale, tuttavia, sceglie per il racconto la strada meno diretta, quella delle “storie” – personali, con la “s” minuscola, non generazionali. Una delle immagini più ricorrenti nei testi è quella delle “rondini”, a suggerire la possibilità di un volo liberatorio che qui, però, è schiacciato dall’assenza, altra “presenza” evidente del disco. E tu non ci sei è una vignetta (sulla mancanza) d’amore, immersa in un bagno di new-wave gelida (versante Wire). «La mia vita era di tutti, tutto è stato dimenticato», canta Fiori in Se me lo chiedi dolcemente, un valzer infarcito di dissonanze e soprattutto inframmezzato da un’esplosione di acuta disperazione. Squarci d’orrore si aprono anche nelle trame ipnotiche e tese di Rosario («nell’altra camera, intanto, / una coppia di fidanzati marciva nella fossa comune») e nella lugubre visione della title-track, cristallizzata nello sguardo della «bambina coi capelli rossi» che «ha paura di qualcosa / guarda la madre / resta immobile».

Dentro i battimenti delle rondini è un album sorprendente, che unisce rigore e fisicità. Il punk-funk meccanico de Le ali di Alì, i tribalismi estenuanti di Santa Brigida e le nevrosi free-jazz di Si appressa la morte, non ci è dato sapere cosa c’è al di qua (degna di Pere Ubu e John Zorn) non concedono tregua, tramortiscono senza pietà – come Beruschi e lo spazio concentrazionario di un Drive inn da incubo.

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