Gabriele Salvatores – Quo vadis, baby?

Giorgia Cantini è una donna infranta, spezzata. Il suicidio della madre e della sorella, Ada, e un padre alcolizzato e distante hanno ridotto la sua vita ad una lotta quotidiana per non affondare in un mare nero pece di disperazione. Un bel giorno, il passato bussa alla sua porta: un amico di famiglia le spedisce un pacco con una serie di cassette, messaggi video che Ada gli inviava. Giorgia, detective privata nello studio del padre, si lascia allora riabbracciare dall’antica ossessione: scoprire cosa sia successo quella notte di sedici anni fa in cui Ada, trasferitasi a Roma per inseguire i suoi sogni di attrice, si impiccò ad una trave del suo appartamento. Soprattutto, chi è A., il misterioso uomo che la ragazza aveva iniziato a frequentare negli ultimi tempi?

Gabriele Salvatores parte dal testo di Grazia Verasani e ne esaspera il carattere gotico. In una Bologna oppressa e resa inospitale dal freddo di una notte perenne, la Cantini (che ha il volto stanco di Angela Baraldi) si districa come può tra cicatrici che non guariscono e vecchi rancori familiari, in cerca di una catarsi. Il suo è un mondo corrotto, marcio, fatto di uomini che impazziscono per troppo o troppo poco amore e donne infelici, che tradiscono, si uccidono o vengono uccise, in silenzio. La felicità è, più che una speranza, una specie di utopia: il caso vuole che l’affascinante Andrea, con cui la detective sembra finalmente poter raggiungere un po’ di pace, è proprio l’A. con cui Ada aveva intrecciato una relazione distruttiva, fatta di alcool, coca e botte.

Salvatores tratteggia un universo chiuso, oppresso dal senso di colpa e fiaccato da una rabbia che non conosce sbocchi. Il problema, però, è che lo fa senza spontaneità, in modo programmatico, arido. Il buio delle location è una cappa orchestrata con l’intento di evocare quel gelo interiore e quello squallore che, da solo, il racconto non riesce a suscitare. La sceneggiatura asciuga il testo della Verasani, tacendo sia il ritratto di una Bologna in declino che la caratterizzazione minuziosa del lavoro di detective in una piccola agenzia. Punta tutto sul tormento interiore di Giorgia, sul trauma della perdita, sulle ferite che il silenzio procura, ma non penetra davvero la polpa di un dramma potenzialmente dirompente, ovattato da trovate registiche fin troppo elaborate.

L’impressione è che Salvatores abbia adottato l’intreccio a pretesto per cimentarsi col noir e sperimentare col digitale in alta definizione: il risultato è un esercizio di stile infarcito di cliché. Occorreva ben altro, insomma, per trasporre la narrazione incalzante e ferita della Verasani: occorreva, forse, un altro regista…

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