Tim Burton – Frankenweenie

Victor è un adolescente solitario, appassionato di scienza e con unico amico il suo cagnolino, Sparky. Un giorno, spinto dal padre, stufo di vederlo sempre sui libri, accetta di partecipare ad una partita di baseball. Con il fortissimo Toshiaki come lanciatore, sembrerebbe non esserci gara: due palle su tre si trasformano in strike. L’ultima, però, Victor la respinge alta in cielo. Sparky (che proprio il ragazzo aveva legato lì vicino, per impedirgli di disturbare la sfida), si libera e insegue la sfera: la acchiappa, ma nell’attraversare la strada per tornare al campo, non si accorge di una macchina che sta arrivando…

L’incidente è mortale – o, per lo meno, sembra. Perché Frankenweenie è un film di Tim Burton e nei film di Tim Burton per i “normali”, come per le leggi naturali, non c’è posto. Victor mette a frutto gli insegnamenti del bizzarro prof. Rzykruski, e riporta in vita Sparky. In breve, gli altri ragazzini faranno lo stesso con i propri animali domestici, e la città sarà invasa da gatti-pipistrello, criceti-mummie, sadiche scimmiette di mare, tartarughe e topi giganti. Burton, insomma, parte da un suo corto del 1984 e, sotto le lenti del mito di Frankenstein (è il cognome della famiglia di Victor), tratteggia l’ennesima variazione sul tema (autobiografico) del “diverso”, l’adolescente bizzarro e introverso alle prese con un mondo adulto cinico e distratto. Il tutto, ovviamente, con la consueta dose di (auto)citazioni cinefile: Frankenweenie, infatti, chiama in causa non solo la creatura di Mary Shelley, ma anche Dracula (la famiglia dei vicini di cognome fa Van Helsing), Godzilla, i Gremlins e i b-movie fanta-horror degli anni ’50-’60, già omaggiati in Ed Wood (a proposito: Rzykruski ha le fattezze del “padre” di Edward “mani di forbice”, Vincent Price, ma l’accento di Bela Lugosi).

Lo stop-motion 3D dell’animazione è accattivante, mentre l’anacronistico bianco e nero garantisce quel tipico tocco nostalgico e rimpolpa la fantasia goticheggiante del regista. Nella prima parte, tutto è (quasi) perfetto, pur – si diceva prima – nella sostanziale ripresa di temi e stili delle opere precedenti; nella seconda, invece, l’apparato spettacolare ruba un po’ di poesia e cede (come troppo spesso capita all’ultimo Burton) alla maniera.

Frankenweenie, insomma, è un apologo sulla diversità e la fantasia, sul potere dell’amore e del cinema (dell’amore del cinema…), che vince la morte e infonde nuova linfa ad un immaginario inesauribile, ricchissimo, quello che ha formato il piccolo Tim e ne ha segnato il percorso artistico. Ben fatto e gustoso quanto si vuole, ma il Burton dei bei tempi avrebbe portato a casa il punto intero…

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