Yo la Tengo – Fade

Non ci rendono mai le cose facili gli Yo la Tengo. Per fortuna. Fade, tredicesimo disco di una carriera da incorniciare, apparentemente fa tutto semplice: timide chitarre distorte, archi suadenti, arpeggi folk, scansioni ipnotiche e intimismo lo-fi tratteggiano un quadretto in superficie rilassato, quasi prevedibile. E invece, ad esaminare bene l’ordito, sono più i crucci che le gioie. La “dissolvenza” preannunciata dal titolo (come a segnare, sin da subito, una parentesi nel caos del mondo quotidiano) è l’immersione in un sentimento (l’amore) tempestato di mille dubbi, un sussurro delicato che si dipana sul filo di un presente incerto che non smette di sognare il futuro. La malinconia si mescola all’inquietudine, in un abbraccio che solo il finale di Before we run scioglie in una preghiera estatica («Take me to your distant lonely place / Take me out beyond mistrust / Speak to me in words we can’t erase / Take me where it’s only us»).

Tra questa risoluzione dal sapore catartico e l’incipit in “raga” di Ohm, si svolge un diario intimo, in linea con le recenti produzioni del trio ma senza lungaggini o escursioni free-form, anzi saldamente ancorato ad un’idea di canzone che, anche quando più espressamente “pop” (la “collegiale” Paddle forward gli aromi black di Well you better, in odore di Belle & Sebastian), non è mai banale o nostalgica per il puro gusto di esserlo. Sintomatica di questa anti-convenzionalità è “love”-song Is that enough: archi e una melodia degna di Bacharach, ma sotto il fuzz frigge e, tra le parole, si affacciano smarrimento e rimpianto («It’s not enough. No… / If it’s still unclear the way I feel for you / It’s true, what can’t come back’s what we can’t bear to lose»). Stupid things si costruisce a poco a poco, intorno a un fraseggio tenue di chitarra e a un battito meccanico, esasperando così l’understatement del disco e, insieme, la sua ricchezza fatta di piccole suggestioni opportunamente “combinate”. In un album “nebbioso” non poteva mancare, ovviamente, lo spettro di Nick Drake: e infatti, eccolo affacciarsi in I’ll be around. In questa seconda metà dell’LP la matrice folk è persino più evidente, con i picchi “onirici” di Cornelia and Jane e Two trains (suonata, questa, come immersa in un acquario) e The point of it, che invece sembra tirare in ballo Mark Kozelek.

Del finale di Before we run abbiamo già detto: ottoni e violini rischiarano l’orizzonte e concludono questo bel viaggio, che Ira Kaplan, Georgia Hubley e James McNew hanno architettato con la complicità del producer John McEntire (Tortoise). Varietà, non enciclopedismo; dolcezza, non melensaggine; dubbi, non verità: bentornati Yo la Tengo.

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