Nel 1970, Pier Paolo Pasolini s’immerge nella lettura del Decameron di Boccaccio e pensa di trarne un film. Scrive così una lettera a Franco Rossellini, il produttore del progetto, in cui gli chiarisce le sue intenzioni: dividere la pellicola in tre tempi e individuare, per ciascuno di questi, una novella più rappresentativa a mo’ di «cornice», in modo da riproporre la struttura della versione letteraria. Nella fattispecie, tali novelle dovevano essere quella di Ser Ciappelletto per il primo, di Chichibio e la gru per il secondo e di Giotto e Messer Forese per il terzo. Ma già in fase di stesura della sceneggiatura, Pasolini decide di rivederne la struttura d’insieme e di eliminare le novelle di ambientazione esotica, oltre che quasi tutti i racconti riconducibili ad un ambiente aristocratico-borghese (ovvero gli episodi di Martellino, Alatiel, Agilulfo e il palafreniere, Natan e Mitridanes, Alibech e Gerbino). In un’intervista rilasciata a Dario Bellezza nel ’70, il regista definiva queste variazioni volte a spostare l’azione e il mondo del Decameron nel sud d’Italia. Una variazione diatopica che realizzava il passaggio dal toscano del 1300 al napoletano italianizzato: Napoli come città in cui il regista ravvisava l’estrema resistenza e l’unica forma di refrattarietà al dilagare della civiltà borghese.
Da questo incontro biunivoco del testo originale col regista, nasce un’opera autonoma e in perfetta armonia tra la componente tragica e quella burlesca. Il film è parte della cosiddetta Trilogia della vita, insieme a I racconti di Canterbury e a Il fiore delle Mille e una notte, e con questi ne condivide tra l’altro il costumista Danilo Donati, lo scenografo Dante Ferretti e la musica di Ennio Morricone. Sui contenuti e sul modo di trattarli, vale quanto opportunamente scritto da Alberto Moravia: partendo dal presupposto per cui il Decameron sarebbe un libro «non solo privo di tabù ma anche privo del compiacimento di non averne», Pasolini ha eliminato «ogni tentazione di scollacciatura» e fuso arditamente «la serenità rinascimentale con l’oggettualità fenomenologica moderna», secondo l’idea di spingere la rappresentazione fin dove era necessaria e dunque lecita.
«Perché realizzare l’opera quando la si può sognare soltanto?» è la frase di chiusura del film, con cui il Giotto pasoliniano abbandona l’affresco incompiuto parallelamente alla compiutezza della pellicola, e che in termini più generali propone l’estrema sintesi del suo travaglio artistico: perché dare forma definitiva ad un quid che può restare eternamente sospeso in una pratica di ludica immaginazione? A guardare questo capolavoro se ne ricava la risposta.