Bisognerebbe valutare I fatti di Philip Roth da due punti di vista: il primo letterario, quindi l’opera in sé. Un’autobiografia, nuda narrazione di sequenze di eventi. E qui Roth non fallisce, non può fallire, anzi, rilancia. Non si limita a raccontare la storia della sua vita, ma ne discute attraverso uno scambio epistolare che apre e chiude il libro con il più famoso dei suoi alter-ego letterari, Nathan Zuckerman.
Nella prima lettera, Roth spiega al suo alter-ego come un esaurimento nervoso l’abbia portato a riflettere su quella che è stata la sua vita e gli confida il peso, per lui così abituato a riscrivere la sua esistenza partendo dall’esperienza personale per poi rielaborarla in fiction, di resistere alla tentazione di deformare gli avvenimenti poco interessanti e renderli intriganti.
La vita di Roth messa a nudo è comunque fuori dal comune: le origini nella comunità ebraica di Newark, i tempi dell’università, la carriera professore universitario iniziata a soli 23 anni, i primi successi come autore – anche questi abbastanza precoci – i disastri dei suoi matrimoni. Tutto narrato in maniera schietta, quasi esageratamente onesta, ai limiti del cinismo.
Il libro si chiude con la lettera di risposta di Zuckerman, che eleva il libro da semplice autobiografia e lo riavvicina alla narrativa. Zuckerman accusa Roth di essersi trattenuto, di non aver saputo usare il suo talento su se stesso perché incapace di essere onesto quando si espone in prima persona. La sua vita è troppo perfetta. Come può l’autore del Lamento di Portnoy aver avuto un’infanzia felice? Davvero pensa quello che scrive, o sta solo idealizzando certi periodi della sua vita a seguito del suo esaurimento nervoso? E a chi deve credere a questo punto il lettore? Allo scrittore autobiografico che fischietta prima dei funerali o all’alter-ego che non vuole più che la sua esistenza sia sconvolta dai capricci del suo creatore? Chi distorce la realtà? Chi trasforma l’autobiografia di Roth in una fiction di Roth?
Da un punto di vista storico invece il libro è decisamente in ritardo. In America è uscito nel 1988 e Roth in questo periodo non è rimasto un bravo scrittore: è diventato un grande scrittore. Forse uno dei più grandi del secolo scorso. Ma non solo: è diventato il primo scrittore a “morire” come scrittore, annunciando la cessazione della sua attività artistica solo pochi mesi fa.
L’opera resta insomma sospesa, incompleta, perché all’epoca della sua stesura Roth era incompleto. E il divario tra il potenziale e l’attuale è troppo grande per essere ignorato.