Wire – Change becomes us

I Wire che rimettono mano al loro repertorio nascosto: curioso. Negli anni ’70, Colin Newman, Graham Lewis e Robert Grey avevano messo a ferro e fuoco i cliché del rock con album difficili e sgradevoli come Pink flag, Chairs missing e 154. Ora, hanno pensato bene di tornarsene in pista con un luogo comune che più comune non si può: l’album che riarrangia vecchi inediti (stagione 1979-1980, per la precisione).

Il punto, qui, non è se Change becomes us sia o meno un bel disco: il punto è se sia un disco necessario o no. Se abbia davvero un senso all’infuori del culto nostalgico o della necessità di dare in pasto qualcosa ai fan, una scusa per tornare a suonare live. Certo, chi si aspetta un ritorno alle atmosfere cupe, opprimenti e radicalmente moderniste dei primi dischi, rimarrà parecchio deluso. Ci sono i pattern ipnotici (Re-invent your second wheel), le accelerazioni punk (Adore your island,Stealth of a stork), i tocchi più elettronici ed evocativi (B/W silence), tuttavia il passato è irrimediabilmente lontano. È una questione di tono: non c’è più voglia di rivoluzione, piuttosto un approccio conservativo, artigianale. “Pop”: i consueti quadretti di alienazione metropolitana (Time lock fog) e gli umori teutonici disco-punk (Eels sang) assumono qui forme più convenzionali, meno aspre, sono elucubrazioni intellettuali un po’ salottiere, inoffensive, che sfigurerebbero persino sul disco di un esordiente. Il fascino c’è, sicuro: Doubles & trebles, la stessa Time lock fog e la più psichedelica e morbida & much besides solleticano, ma semplicemente perché inchiodano l’ascoltatore all’attesa di un’esplosione, di una fiammata stile “bei tempi che furono” che qui non è in effetti neppure contemplata. Questo, almeno, risolve una delle questioni di cui sopra: Change becomes us non è una presa in giro, giacché in cui non fa nulla per accreditarsi come un improponibile ritorno al passato. Si distende preciso, solido e prevedibile dalla prima all’ultima traccia, alla maniera delle prove recenti dei nostri (Red barked tree): se qualcuno poi s’illude, be’ quello è affar suo.

Questione di prospettiva, insomma, la stessa che porterà gli amanti della band e i completisti ad ammirare quest’anacronistica escursione nei territori dell’art-rock, magari suggerendo persino che possa rappresentare un completamento del trittico di album iniziale (dopo 154, la band si prese una lunga pausa salvo tornare nel 1989 con il più sbiadito The ideal copy). Può essere, certo: come può essere che i Wire vogliano semplicemente godersi una serena vecchiaia e suonare la musica che amano. Certo, l’eredità del nome pesa come un macigno: non gioverebbe un cambio di monicker, a questo punto?

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