L’8 dicembre 1995, Jean-Dominique Bauby viene colpito da un ictus. Ha 43 anni. Fino a quel momento la sua era stata una vita invidiabile: giornalista e capo redattore della rivista ELLE, un uomo di successo, benestante, ammirato. Quando si risveglia in ospedale scopre che il suo corpo ha cessato di funzionare: non una parte, tutto il suo corpo non gli risponde più, a eccezione della sua palpebra sinistra. Uno come Bauby non è destinato ad arrendersi. Così scrive un libro, Lo scafandro e la farfalla. Scrive per modo di dire, nel senso che detta l’intero volume utilizzando solo la palpebra funzionante: le lettere dell’alfabeto vengono posizionate secondo un ordine prestabilito e Bauby le può scegliere con dei battiti di ciglia. Il libro viene pubblicato nel ’97, dieci giorni prima della morte dell’autore per arresto cardiaco.
Una storia del genere non poteva passare inosservata e, infatti, nel 2007 Julian Schnabel ne ha tratto un film, intitolato appunto Lo scafandro e la farfalla. Sebbene il moto sia ormai del tutto compromesso, oltre alla palpebra ci sono almeno altre due cose che ancora funzionano in Bauby: l’immaginazione e la memoria. Sono gli unici due mezzi che egli possiede per evadere dallo scafandro, quell’ingombrante peso che è diventato il suo corpo. Immaginazione e memoria trasformano il malato in una farfalla, capace di scappare dalla sua prigione, per esplorare infiniti mondi, per ritrovare se stesso e il senso delle cose. Perché la vita di Bauby è costellata da attimi che non ha saputo cogliere, da istanti vissuti superficialmente, da occasioni sprecate, ed è proprio quell’infermità a fargli comprendere ciò che davvero conta.
Inizia così un percorso di riflessione e presa di coscienza di un uomo ormai condannato ma che, in un impeto di ribellione per il suo stato, sceglie di «non compiangersi più». Un cammino che procede a ritroso, per dedicare un pensiero al passato, alle persone amate, ma poco valorizzate, e a tutte le situazioni rimandate, nell’assoluta certezza del domani.
Ancora una volta, Schnabel riesce a non trasformare i suoi protagonisti in casi pietosi – c’era riuscito, in precedenza, anche con Basquiat e Reinaldo Arenas: vite tragiche, destinate a epiloghi tragici, ma dotate di dignità e forza, qualità che hanno reso tali uomini, nonostante tutto, dei vincitori.