Conclusosi il clima della Rivoluzione culturale, la Cina degli anni ’80 riprende la libera produzione di pellicole, lasciando spazio ai registi della cosiddetta “Quinta generazione”, studenti dell’Accademia di Pechino. Stimolati, dopo anni di censura, ad affrontare criticamente tematiche sociali, producono film che descrivono con realismo poetico, tipico del cinema asiatico, i lati più oscuri della Cina conservatrice. Tra questi autori, risalta agli occhi del pubblico occidentale Zhang Yimou, regista di Lanterne rosse (tratto da un romanzo di Su Tong), film vincitore del Leone d’Argento nel 1991 e buon rappresentante di questa rinata corrente del cinema orientale.
La protagonista Songlian, interpretata da una bravissima Gong Li, è una giovane studentessa nella Cina degli anni ‘20, costretta a interrompere l’università dopo la morte del padre. Avendo problemi di denaro, decide con rassegnazione di darsi in sposa ad un uomo ricco e di antica stirpe, Chen. Questi vive circondato da servi, in una villa che sembra racchiusa in una diversa sfera temporale, isola felice per lui e prigione (seppur fatta di seta e ori) per le sue mogli, donne adibite alla sua soddisfazione erotica ed alle quali si aggiunge come “quarta signora” Songlian.
La vita nella casa è regolata secondo rigide tradizioni, tra le quali la pratica di accendere lanterne rosse fuori dagli appartamenti della moglie scelta per passare la notte, ambito e importante rito di apprezzamento accompagnato da doni per la prescelta. Tutto ciò genera forte competizione tra le mogli e Songlian presto si accorge che, dietro i loro rapporti ipocriti, si celano cospirazioni: alcune dirette a lei stessa, oggetto di invidia perché moglie più giovane. Un’accusa di adulterio sarà l’apice di questo clima, divenuto troppo teso.
La trama non cede ad allusioni, il realismo è qui molto diretto ma condito con una scenografia dal fascino onirico e attenta al colore. Oggetto del film è il concubinato, l’utilizzo della donna come merce tramite il potere, fenomeno comunemente diffuso in Cina sino in età contemporanea, un aspetto della società cinese presentato con toni gelidi dal commento iniziale di Songlian, perfetta introduzione al film: «Sì. Sarò una concubina. È questa la sorte di ogni donna». Il palazzo stesso, sola ambientazione dell’intero film, è caratterizzato non a caso da un’architettura quasi soffocante, le pareti sono alte barriere che separano dal mondo esterno e i cortili, ripresi dall’alto, trasmettono senso di clausura: gli interni sono abbelliti ma questo eccesso di estetica orna pur sempre una prigione. Le lanterne poi non sono che il simbolo d’una ritualità stantia, che può sopravvivere solo nel chiostro ideologico di una visione conservatrice decadente, mantenuta in vita con la scusa della tradizione.