Facciamo un gioco: dalla tracklist di Fellow travelers, selezionate subito la terza traccia, Hurts like heaven (in tempi di skipping selvaggio, non è un peccato grave: e poi, è un solo un gioco). Direste mai che si tratta della Hurts like heaven che compare su X & Y dei Coldplay? A meno che non siate fan della band inglese (e dunque non conosciate il pezzo), sembra difficile che abbiate potuto azzeccare al primo colpo. È solo un esempio, questo, ma permette subito di capire che tipo di album di cover è Fellow travelers: uno di quelli in cui le reinterpretazioni suonano personali, anche quando (e non è questo il caso, abbiamo detto) l’arrangiamento si mantiene aderente all’originale.
Con Fellow travelers, gli Shearwater hanno corso un bel rischio con, a cominciare dal concept che c’è dietro: reincidere i brani delle band con cui sono stati in tour chiamandoci gli stessi musicisti che li hanno scritti, poteva portare ad una celebrazione sterile, e invece no. Fellow travelers è un disco con spina dorsale, che si destreggia bene tra momenti più robusti, in ossequio all’ultima fase degli Shearwater (quella di Animal joy), e passaggi più sommessi, che invece richiamano i primi passi della band.
Al primo filone appartiene I luv the valley OH!!, uno dei brani più celebri degli Xiu Xiu, riletta in chiave anthemica. Al secondo, Ambiguity, del songwriter britannico David Thomas Broughton, di cui Jonathan Meiburg e soci non hanno intaccato la purezza cristallina e un po’ retrò. A questa si ricollega l’unico brano originale della raccolta, A wake for the minotaur, con un efficace featuring di Sharon Van Etten. Di Natural one dei Folk Implosion (rifatta con Jenn Wasner dei Wye Oak) si può dire che, pur nel rispetto dell’originale, suona più diretta e ruvida. Una maggiore esuberanza traspare anche nel remake di Tomorrow dei Clinic, architettato con Chris Flemmons dei Baptist Generals; i Clinic, a loro volta, ricambiano il favore trasformando Fucked up life dei “Generali” in un pezzo praticamente krautrock.
Dove la trasformazione suona un po’ meno coinvolgente è in Cheerleader, più elettrica e però anche più piatta rispetto alla versione di di St. Vincent. Per il resto, però, Fellow travellers è un buon disco, che conferma Meiburg come uno dei visionari della scena indie americana, capace di trasformare un banale scambio di cover in una riflessione sul senso profondo dell’essere (e sulla vita da) musicisti.