Nuovo Mondo, XVI secolo. Un conquistador, a servizio della regina Isabella di Spagna, si mette alla ricerca di un misterioso tempio maya: si dice che ospiti il mitico Albero della vita presente nella Bibbia, oggetto di interesse per la regnante che promette al guerriero la sua mano.
Premesse per un film storico d’avventura. Ma, in realtà, tutto ciò costituisce solo il soggetto di un libro scritto nel XXI secolo dalla reale protagonista, Izzi, malata di cancro in fase terminale. Suo marito è Tomas, neurochirurgo specializzato nel trattamento dei tumori. La giovane donna dimostra grande forza nell’affrontare il suo male ed arriva ad accettare la morte prima del marito, uomo ossessionato dalla possibilità di trovare una cura. Negli ultimi giorni di vita Izzi si abbandona alla spiritualità; con entusiasmo parla al marito del biblico Albero, capace di donare immortalità, e del mondo funebre dei Maya, Xibalba, luogo di morte e di rinascita. Sapendo di avere i giorni contati, Izzi affida al marito l’incarico di completare il suo romanzo, la cui storia man mano pare sovrapporsi alla ricerca (scientifica) personale di Tomas, che scopre di poter curare i tumori grazie al potere di un misterioso tronco.
Dal punto di vista narrativo, in The fountain si seguono dunque tre vie, separate da ampi spazi temporali e contestuali, alternate e accostate frequentemente grazie a motivi ricorrenti e ognuna caratterizzata dalla presenza della stessa coppia di attori, Hugh Jackman e Rachel Weisz: l’avventura fittizia del conquistador; la storia dello scienziato, alla ricerca di una cura per il cancro (l’ossessione è un topos del cinema di Darren Aronofsky); infine, il viaggio mistico-spaziale dell’Albero della vita e di un asceta verso la stella morente Xibalba.
Due storie certo valide quelle ideate dal regista, se si esclude l’improbabile viaggio interstellare del Jackman “santone”, suggestione buddhista in un calderone già saturo di spiritualità “ibrida” (tra Bibbia e culti precolombiani). Tuttavia, ciò che un poco si perde in questa sovrapposizione di avventure è il pathos offerto da una storia lineare, oltre al messaggio stesso che si vuole veicolare, importante perché ha a che fare con l’accettazione della morte, vissuta dai due protagonisti in modo molto differente.
L’impressione che si ha è di un regista talentuoso che punta troppo sulla magnificenza della fotografia. L’eccesso di un certo barocchismo visivo impedisce forse allo spettatore di avvicinarsi alla profondità della storia: una sceneggiatura di questa qualità probabilmente non aveva bisogno di un intreccio su più livelli ed effetti virtuosistici da Odissea nello spazio. The fountain resta nonostante questo un film che si presta ad interessanti riflessioni, uno dei più originali sul tema delle malattie incurabili e sull’approccio che fede e scienza hanno con esse.
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