Per molti, Julie Delpy rimarrà sempre la protagonista della splendida trilogia di Richard Linklater Prima dell’alba–Prima del tramonto–Before midnight. Pochi probabilmente conoscono il resto del suo curriculum e, soprattutto, la sua attività di regista, che nel 2007 le ha fruttato qualche soddisfazione anche al box office con 2 giorni a Parigi.
Com’è facile intuire già dal titolo, 2 giorni a New York, la sua nuova fatica dietro la macchina da presa, riprende personaggi, temi e il tono da commedia di quel fortunato film. La protagonista, Marion, non vive abita a Parigi con Jack, si è trasferita a New York, dove vive con un nuovo amore, Mingus (Chris Rock), e due figli, avuti da entrambi da precedenti relazioni. La sua vita scorre frenetica come la vita di chiunque in una città come New York, ma lo squasso vero arriverà quando suo padre, la sorella e il fidanzato di questa (nonché suo ex) la raggiungeranno nella Grande Mela per una visita.
Il ménage si rivelerà presto esplosivo, al punto tale da mettere in pericolo la sopravvivenza della sua stessa relazione. 2 giorni a New York gioca dunque con una serie di ingredienti facili: il richiamo ad un film di successo, una protagonista stralunata ma irresistibile e i suoi parenti ancora più strampalati (nei panni del papà c’è il vero padre della Delpy, Albert, anch’egli attore). L’approccio è poi lo stesso del precedente 2 giorni a Parigi, un cinema intimo, venato di ironia ma con un retrogusto amarognolo.
La difficoltà delle relazioni è il tema centrale, ma la profondità con cui lo tratta la sceneggiatura, firmata dalla Delpy con Alexia Landeau, lascia il tempo che trova. La stessa New York, nelle intenzioni un po’ il convitato di pietra data la sua capacità di assurgere a simbolo della frenetica vita moderna, finisce troppo in secondo piano. La sensazione è che non sia stata una buona idea allargare il discorso dalla coppia alla famiglia intera: 2 giorni a New York ha meno mordente, meno concentrazione del suo predecessore, e così i limiti, la fragilità dell’insieme, emergono più impietosi.
2 giorni a New York rimane così sospeso in un limbo di buone intenzioni, penalizzato da troppe ingenuità (anche registiche), e finisce con il somigliare alle tante pellicole di genere. La Delpy, cambiando il protagonista maschile e l’ambientazione, probabilmente voleva evitare l’effetto-saga alla base dei film di Linklater, ed è una decisione perfettamente comprensibile. Se da Linklater avesse preso però la poesia e la capacità di valorizzare al meglio ogni piccolo ingrediente senza passaggi a vuoto, allora 2 giorni a New York sarebbe stato decisamente migliore di quanto, purtroppo, non sia.