Non Voglio che Clara – L’amore finché dura

I cantautori, gioia e dolore della musica italiana. Sono un filo rosso che percorre tutta la storia della nostra cultura pop. Ce n’è di tutti i tipi: esistenzialisti (Tenco), dylaniani (De Gregori), misticheggianti/avanguardisti (Battiato), umanisti (De André), popolani (Venditti), politicizzati (Guccini), punk e new wave (Ruggeri, Faust’O), indie (Brunori Sas, Bianconi) e via di seguito. Hanno fatto cose grandi, soprattutto considerando la rottura con l’epoca degli “urlatori” e delle canzonette sanremesi, e altre insopportabilmente retoriche, stantie. In ogni caso, non li si può ignorare.

In generale, la discriminante storica tra ciò che cantautorale è e cio che non lo è, è ovviamente il testo: una prerogativa molto italiana, di fronte alla quale la musica quasi passa in secondo piano o comunque non è in grado di tenere il passo dell’innovazione linguistica. Esistono però le eccezioni. Prendiamo il caso di Fabio De Min. Giunti al quarto album in dieci anni di carriera, i suoi Non Voglio che Clara possono a diritto vantare una collocazione più ampia di quella “cantautorale” in senso classico. Perché, certo, le dieci tracce de L’amore finché dura hanno il gusto della parola elegante, del bozzetto fulmineo, ma anche una ricchezza musicale che a tratti lascia di stucco.

Merito anche della produzione di Giulio Ragno Favero, capace di non strafare, di dare la giusta consistenza al mix di ingredienti acustici e sintetici. Il complotto, che fa da apripista, incanta con un’elegante linea di piano posata su un beat elettronico lieve, con i synth a far da collante. Si parla di un sospetto, forse di un tradimento, e il testo cita Battisti (probabilmente lo spirito più affine a De Min), Bukovski e la birra Ichnusa. Dentro Le mogli e, soprattutto, Le anitre, di canzoni ce ne sono due, tre per volta, ma la complessità dell’insieme non diventa autoreferenzialità.

C’è una specie di distacco algido che percorre tutto L’amore finché dura, che trasforma il realismo dei testi in qualcosa di più impalpabile e che permette di parlare anche del delitto con nonchalance (La bonne heure). Tuttavia, l’umanità, il dolore, non sono estranei a queste canzoni: la coda strumentale baustelliana de Le anitre ne è la riprova.

Gli acrobati ha un ritmo pigro di chitarra e un supporto di fiati ed archi ben dosato, e brani come I condomini e La caccia evidenziano una chiara matrice folk. Tuttavia, convivono benissimo accanto all’elettronica cupa de L’escamotage (incentrata su un abbandono), a dimostrazione di come il tessuto non solo narrativo, ma anche melodico e armonico de L’amore finché dura sia coerente. I Non Voglio che Clara, insomma, raccontano e fanno poesia non solo con le parole, anche con la musica. La loro è una piccola, grande rivoluzione, destinata a sconfiggere l’usura del tempo e i cliché più provinciali.

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