Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra – Fuck off get free we pour light on everything

Non chiamatelo post-rock. Ai Thee Silver Mt Zion l’etichetta non piace per niente, e del resto è facile rendersi conto di come sia riduttiva semplicemente ascoltando questo Fuck off get free we pour light on everything. La formazione canadese, che aveva esordito nel 2000 (con He has left us alone…) come un trio strumentale nella scia dei Godspeed You! Black Emperor (da una cui costola, in effetti, sono nati), ora è un robusto quintetto che gioca con il blues, la psichedelia, il metal, e che alle sanguinge tessiture strumentali ha aggiunto il cantato, con testi dal forte connotato sociopolitico.

Fuck off get free we pour light on everything è un bollettino medico disastroso per l’Occidente, popolato di visioni apocalittiche: «There’ll be war in our cities / There’ll be riots at the mall / There’ll be blood on our doorsteps / All our cities gonna burn / All our bridges gonna snap / All our children gonna die / All our children gonna die», canta Efrim Menuck in What we loved was not enough. Un brano imponente e cullante al tempo stesso, fatto di chitarre poderose, archi solenni ed un crescendo finale che ti strappa le ossa dalla schiena. Dice bene l’incipit dell’album, affidato alla voce di un bambino: «We live on an island called Montreal, and we make a lot of noise, because we love each other». Questo non è noise per amore del noise e le “cattive vibrazioni” rimandano sempre, inevitabilmente, ad un senso di bellezza superiore.

Come in Austerity blues, il “blues dell’austerità”: le pulsazioni cupe ed ipnotiche di basso creano l’achitrave su cui si innalzano le chitarre distorte, frenetiche, ossessive, che lanciano poi la volata per una jam selvaggia, dal retrogusto zeppeliniano. Il finale è all’insegna di volumi più contenuti: «Lord let my son live long enough to see that mountain torn down» è il mantra, e intorno sciamano gli archi, mentre le sei corde precipitano nel drone.

Anche Take away these early grave blues ha delle unghie niente male. Si apprezza così meglio il contrasto con Little ones run, una tenera ninna nanna che spezza un po’ l’andamento dell’album e fa riposare i timpani. Una specie di malinconia cosmica la percorre, la stessa che costituisce la cifra emotiva della conclusiva Rains thru the roof at thee Grande Ballroom (for Capital Steez), dedicata al rapper americano morto suicida a 19 anni.

Insomma, non solo forza bruta in questo Fuck off get free we pour light on everything. Anzi, se l’album funziona è proprio perché, come nei predecessori, gli elementi noise e progressivi non sono dimostrazioni fini a se stesse, ma mezzi al servizio di una poetica che, quanto ad intensità, nel cosiddetto post-rock (ops) oggi ha pochi rivali.

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