È sempre interessante vedere come i miti e le leggende del passato vengono masticati e risputati nell’epoca moderna. Mary Shelley scrisse Frankenstein nel 1818, in un’epoca in cui l’Illuminismo tracimava nel Romanticismo: lo scienziato creatore del mostro era “il nuovo Prometeo”, ma il romanzo era intriso di umori gotici e ammoniva sul potenziale nocivo della scienza.
Oggi, l’I, Frankenstein di Stuart Beattie è ugualmente indicativo: la sensibilità post-postmoderna di Hollywood ha trasformato il mito della creatura che torna in vita dalla morte in un fumettone che flirta con il linguaggio dei videogame, carico di pretese filosofiche e attento ad accattivarsi le simpatie di un pubblico adolescente. Il mostro qui non è poi così mostro. Certo, Aaron Eckhart le cicatrici ce le ha, ma il suo Adam (questo il nome della creatura) non ha l’andatura ciondolante e lenta, le mosse impacciate e l’eloquenza tutta grugniti dei suoi predecessori (vedi i film con Boris Karloff). Al contrario, è muscoloso, forte e agile, ed ovviamente conosce le arti marziali (dopo Matrix, se non sai il kung fu non sei nessuno). Insomma, è un superuomo o, nell’accezione pop dell’espressione, un supereroe.
Ovviamente è un supereroe riluttante: il mondo lo schifa, vive in completa solitudine da 200 anni, e però ad un tratto si trova al centro di una guerra tra il Bene e il Male. I demoni vogliono conquistare la Terra, i gargoyle la difendono e lui, Adam, che deve decidere da che parte stare – e non è facile, visto che, volendo, potrebbe pure distruggerlo, il genere umano. L’incontro con una bella scienziata (Yvonne Strahovski, programmaticamente battezzata Terra) lo spingerà a prendere la decisione migliore.
La battaglia, spettacolare, si avvale dei soliti, curatissimi, effetti speciali. Lo scenario è necessariamente gotico, un po’ perché si parla di creature degli inferi e un po’ perché i produttori sono quelli di Underworld. L’ironia è bandita, la fa da padrona una filosofia modulata in forme appetibili per un pubblico alla ricerca di un divertimento intelligente. Il risultato, però, è fiacco, poco incisivo e pieno di cliché. Insomma, I, Frankenstein ammoderna nel senso che impoverisce il testo di partenza (filtrato attraverso la graphic novel di Kevin Grevioux) e si assesta su un terreno consolidato, quello dell’eroe solitario e reietto che cerca disperatamente di essere accettato.
A guardare I, Frankenstein, insomma, viene in mente che le leggende e i miti, come i morti, è davvero bene lasciarli riposare.