Nel 1961, a Gerusalemme iniziò uno dei processi più importanti del secondo dopoguerra: quello ad Adolf Eichmann, gerarca nazista catturato l’anno prima mentre si godeva la vita da latitante in Argentina. Ad assistere e a raccontare ai lettori americani il dibattimento (che, per la cronaca, si concluse con una condanna a morte il 15 dicembre dello stesso anno), c’era una filosofa tedesca di origini ebraiche, che anni prima aveva lasciato il suo paese natale proprio per l’ascesa del nazismo: Hannah Arendt.
Quell’esperienza servì alla studiosa per ricavare il suo saggio più celebre, La banalità del male, che alla sua uscita, nel 1964, suscitò un mare di polemiche, guadagnandosi persino l’accusa assurda di essere “giustificazionista”. La “colpa” della Arendt era piuttosto semplice: di fronte ad Eichmann, contrariamente a quanto anche il suo ruolo di attivista della comunità ebraica newyorkese lasciasse supporre, aveva cercato di ascoltare e capire, due cose sempre difficilissime (ancor di più in questo caso, dato che Eichmann era ritenuto uno dei massimi responsabili dello sterminio degli ebrei).
Tutto questo, almeno sotto il profilo dei fatti, la pellicola di Margarethe von Trotta lo racconta molto bene – pure troppo. Anche qui, come in Rosa Luxemburg (sull’omonima rivoluzionaria marxista tedesca) e Vision (dedicato alla mistica cristiana del XII secolo Hildegard von Bingen), la tendenza è verso un cinema didascalico, in cui la parola ha un ruolo fondamentale. Peccato, però, che il risultato sia ancora più piatto che in passato.
La Arendt delineata da Barbara Sukowa (che aveva già impersonato per la regista la Luxemburg) è un’intellettuale egocentrica e persino arrogante, verso la quale è piuttosto difficile provare simpatia. La pellicola si concentra tutta sul periodo compreso tra il ’60 e il ’64, ovvero quello del processo (seguito per conto del New Yorker) e della pubblicazione de La banalità del male, ma ha e trasmette davvero poco della forza intellettuale della Arendt.
Il film si guarda bene dall’azzardare interpretazioni o riflessioni sulla natura del male. Racconta una storia (con tanto di ricorso alle immagini autentiche del processo ad Eichmann), e lo fa con un gusto visivo che, sebbene antiretorico, suona persino troppo piatto (“televisivo” è un buon aggettivo). Elegante, preciso nella ricostruzione, ma freddo: Hannah Arendt non scalda il cuore, non crea pathos, in definitiva non rende giustizia al carisma intellettuale di una delle più grandi pensatrici del ‘900, che difronte all’orrore aveva scelto con straordinaria lucidità la via della ragione e della comprensione.