Le occasioni perse: “The walking dead”

[contiene tonnellate di spoiler, non leggere se non si è visto l’episodio 8 della quarta stagione Too far gone]

Credo che non esista una serie che mi abbia fatto arrabbiare più di The walking dead, il potenziale narrativo era enorme: raccontare un mondo post-apocalittico, dove gli umani sono stati sopraffatti dagli zombie e la società, con le sue regole, non esiste più. C’era materiale per svolte narrative sorprendenti e per una riflessione importante, invece è stata solo una sfilza di aspettative deluse. Parlare di di questa serie è anche un compito piuttosto difficile, perché se sono molte le critiche che vengono rivolte allo show, questo riesce comunque a raccogliere un incredibile successo popolare, tanto da far sintonizzare 16,1 milioni (sedici-virgola-uno-milioni) di spettatori per la premiere della quarta stagione, polverizzando ogni record dell’emittente.La serie statunitense, basata sull’omonima raccolta di fumetti creata da Robert Kirkman – che figura anche tra i produttori del telefilm, trasmessa dal 31 ottobre 2010 dalla piattaforma televisiva AMC, ha come protagonista Rick Grames (Andrew Lincoln), un agente di polizia che durante uno scontro a fuoco rimane gravemente ferito e cade in coma. Al suo risveglio, trova il mondo che conosceva devastato da un virus che ha trasformato gli uomini in zombie.

The walking dead ha sofferto in questi anni la scelta (consapevole) di una continua stasi narrativa, che porta i personaggi a rifugiarsi in un luogo sicuro, salvo affrontare dei piccoli viaggi alla ricerca di beni necessari alla sopravvivenza. In questo modo la serie può continuare praticamente all’infinito, creando un “caso della settimana” da risolvere, il limite è però presto visibile: la storia non cresce. Non c’è una trama della stagione. Ci si basa invece solo su quello che accade nel singolo episodio. Queste scelte hanno portato, per esempio, a una seconda stagione – quella della fattoria – eccessivamente statica (si scrive statica, si legge noiosa), in cui l’intero racconto poteva svolgersi in 3-4 episodi, anziché in 14. Se a questa naturale immobilità si aggiunge spesso un atteggiamento conservatore degli autori, che tendono a rimandare quegli eventi che potrebbero rompere l’equilibrio della serie, la frittata è fatta, mangiata e digerita.Ne è un esempio lampante il finale della terza stagione, dove lo scontro finale tra il gruppo di Rick e quello del Governatore, atteso da settimane, viene sostituito con una mattanza dello stesso Governatore ai danni dei suoi soldati. In pratica il finale più anticlimatico della storia, come se Pinguino si suicidasse dieci minuti prima di scontrarsi con Batman. A questo scempio la serie ha cercato di porre rimedio in maniera molto forzata: riavvolgendo il nastro e ricreando attraverso vari espedienti le stesse circostanze per un secondo scontro frontale, proponendolo come finale di metà della quarta stagione. Mah.

Un altro dei problemi della serie potrebbe essere riassunto con un brevissimo (ed immaginario) dialogo:
– ommioddio, un’apocalisse zombie! Cosa facciamo?
– non lo so, sediamoci intorno ad un fuoco e parliamone…

Sì, in The walking dead i protagonisti principalmente parlano, parlano, parlano. Parlano di cosa facevano prima dell’apocalisse; parlando prima di prendere una qualsiasi decisione; parlano poi delle conseguenze di quella decisione e infine parlano di quanto faccia schifo vivere in un mondo post-apocalittico. Tutti. E ne parlano a lungo. La serie fa uno scarso uso delle immagini per raccontare e descrivere i personaggi, e la conseguenza, oltre a una scadente eleganza narrativa, è che i dialoghi risultano appesantiti, didascalici e spesso ridondanti, in una parola: poveri.

Il fatto è che la serie sembra non aver ancora deciso che direzione prendere, cosa voler fare da grande. È rimasta sospesa tra l’horror-thriller e il drammatico, senza imboccare mai una direzione precisa. Su questo punto pesano sicuramente le difficoltà produttive, che hanno portato la serie ad avere ben tre diversi produttori esecutivi in quattro stagioni: Frank Darabont, Glen Mazzarra, Scott M. Gimple, si sono avvicendati durante gli anni a causa – pare – delle ingerenze di Robert Kirkman.The walking dead è basata sulle relazioni più che sulle azioni. Più importanti degli zombi sono le dinamiche che si vengono a creare all’interno dei vari gruppi di superstiti, che permettono di indagare un tema forte, bello e controverso come quello della volontà di sopravvivenza ad ogni costo. Ma questo tema, che potrebbe essere il punto di forza della serie, ha bisogno sì di riflessione, ma soprattutto di dinamicità, ha bisogno che le cose succedano e che i personaggi agiscano, si muovano, altrimenti sarà sempre un continuo chiedersi “ma siamo ancora esseri umani se facciamo questo o quello?” Non a caso la serie ha saputo creare dei bei momenti nei primi episodi (bello, veramente bello il pilot) di ogni stagione e, di solito, negli ultimi, perché sono quelli in cui necessariamente deve accadere qualcosa, per il resto invece l’andamento è troppo spesso blando, quasi pigro.Questo non significa che non possono esistere narrazioni prive di accadimenti (in Mad men non succede praticamente niente), ma per creare una serie di quel tipo servono dei grandi personaggi: The walking dead non ne ha! E non ne ha perché non ha dato loro l’occasione di diventarlo, ha creato troppo spesso situazioni stantie in cui questi non hanno potuto crescere, ha sempre cercato il facile nelle cose e ha perso di vista il racconto di lungo respiro.

Il 9 febbraio partirà la seconda metà della quarta stagione, la serie ha smosso le acque del suo mondo sconvolgendo di nuovo le vite dei protagonisti, riuscirà stavolta a far tesoro degli errori passati o sarà un’altra occasione persa?

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