Per viaggiare nel tempo non c’è bisogno della Delorean: bastano certi dischi. Come Sun structures dei Temples: il tempo di schiacciare play, e sarete catapultati indietro di quarant’anni, ai tempi di Beatles, Kinks e compagnia bella. Come certi trompe-l’œil, che da lontano paiono “veri” e da vicino mostrano la loro illusorietà, l’album di debutto di James Edward Bagshaw, Thomas Edison Warmsley, Sam Toms e Adam Smith sembra una ricostruzione perfetta della sponda psichedelica del Merseybeat: il tempo (tre minuti, quelli di Shelter song) di addentrartici meglio, e scopri che è tutto finto, un colossale diorama di Lennon, McCartney e Ray Davies (o sono Pizzorno, Burgess e i Kula Shaker?) immortalati a jammare in studio.
Sun structures, insomma, ha tutti gli ingredienti al posto giusto: gli arpeggi psichedelici ed orientaleggianti (la title-track), le armonie vocali (Colours to life), la produzione” sporca”. È vintage purissimo, a metà tra il museo e l’esorcismo: da un lato, cioè, mette in mostra stancamente cliché e riti vecchi (i riff e gli archi di The golden throne, vicina a tratti ai primi Arctic Monkeys, ma più articolata), dall’altro mostra quasi di crederci (Keep in the dark, Move with the season, e soprattutto Sand dance). Non è un caso che la band di Bagshaw e Warmsley piaccia tanto a “Mr. Oasis“ Noel Gallagher, il quale, con una mossa da fare invidia al New Musical Express (che comunque non ci è andato leggero: 8/10), ha sparato che i Temples sono la band migliore del Regno Unito (l’ha detto anche Johnny Marr, ma a lui gliela si perdona facilmente).
Endorsement a parte, Sun structures manca di fibra vera: ha una carrozzeria luccicante, persino glam (Keep in the dark ammicca a Marc Bolan), ma il telaio è di seconda mano. Te ne accorgi in pezzi ambiziosi come la già citata The golden throne e A question isn’t answered. Quest’ultima sfrutta il loop di un battito di mani per innestarci sopra un riff di organo avvolgente, e l’idea non è male: poi però entra la voce, quella voce che sembra un’imitazione di Lennon, e la melodia la butta sulla solita psichedelia finto misticheggiante, di quella che stancava quarant’anni fa, figurati ora. Pure le chitarre, a conti fatti, sono meno cattive di quanto non sarebbero dovute (volute) essere.
Soprattutto, Sun structures confonde la ricerca di un’identità sonora coerente con la monotonia: le dodici tracce, ascoltate una dietro l’altra, formano un aggregato di suoni indistinto, in cui anche quelle poche buone intuizioni (per esempio i cambi di tempo e le orchestrazioni di Sand dance) finiscono con lo sparire. Ovviamente, non sono d’aiuto i testi: nel 2014 devi essere davvero tanto bravo se vuoi far passare concetti come «Paradise is alive in the conscious of the brain» senza che ci scappino delle risatine di compassione.
Insomma, i Temples sono nati nell’epoca sbagliata. O forse no, e il problema è proprio questo. In entrambi i casi, non c’è soluzione, se non continuare a impersonare gli hippy e a far finta che Chapman non abbia mai sparato…