Era il 14 febbraio 2004 quando il corpo di Marco Pantani venne ritrovato nella stanza di un hotel a Rimini. Causa della morte, un edema polmonare e cerebrale causato da un’overdose di cocaina. Una morte che ha lasciato sgomenti i tanti tifosi del corridore, uno dei simboli del ciclismo degli anni Novanta, vincitore nel ’98 sia del Tour de France che del Giro d’Italia.
Un Pantani morto solo, dimenticato in seguito ai fatti di Madonna di Campiglio nel 1999: allora si era parlato addirittura di un complotto contro il Pirata, episodio che sembra trovare conferma in una lettera di Renato Vallanzasca dal carcere alla madre di Pantani, in cui l’ex leader della Comasina raccontò di essere stato avvicinato da un amico che gli avrebbe consigliato di puntare sulla sconfitta di Pantani, cinque giorni prima dello scandalo a Madonna di Campiglio.
La carriera di Pantani finì praticamente lì: si allontanò dal mondo del ciclismo vittima di una forte depressione, che, insieme all’abuso di alcool, gli causò il ricovero in una clinica padovana nel 2003. I famigliari del ciclista ancora oggi insistono nel dire che Marco è stato assassinato.
A dieci anni dalla scomparsa, arriva un tributo, il documentario Pantani, diretto da James Erskine, disponibile solo per tre giorni (17-18-19 febbraio), in 100 sale del circuito The Space: una ricostruzione drammatica e toccante dell’ascesa e poi della parabola discendente di questo ragazzo di provincia, dalla corporatura esile, eppure forte e scattante, soprattutto nelle scalate. Non manca la testimonianza di mamma Tonina, che riporta uno sfogo del figlio, il quale dice di non voler più correre perché anche lì, nello sport, «c’è la mafia».