«Ecco, questo è un libro con le palle!» È stata la prima cosa che ho pensato quando ho finito di leggere Come fossi solo, strepitoso esordio di Marco Magini. A volte non servono troppe parole per scrivere un capolavoro. Basta far parlare la storia e i protagonisti, anche quando la storia è un pugno in pieno viso, una pallottola alla testa, un corpo gettato in una fossa comune. A volte, basta credere che quella storia sia necessario raccontarla. Soprattutto se quella storia si chiama Srebrenica.
Marco, hai avuto coraggio e bravura di scrivere della strage di Srebrenica. Come ti sei avvicinato a questo tema? Cosa ricordi di quella guerra? E quando hai avuto la spinta per approfondire l’argomento?
Il primo interesse è stato per la storia di Drazen Erdemovic: il suo essere uomo, riuscire a mantenere le capacità di giudizio quando la scala di valori del mondo intorno a lui era capovolta. La drammaticità del suo non riuscire a essere eroe mi ha ricordato una sorta di moderna Medea e mi ha portato a volerne sapere di più. Una volta deciso di scrivere sul caso Erdemovic, raccontare Srebrenica è stata la naturale conseguenza. Una guerra che ha fatto da sottofondo alla mia infanzia: ai tempi avevo solo 10 anni. Narrare il genocidio di Srebrenica per capire come tale massacro sia potuto accadere in Europa dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
La storia è raccontata da tre voci differenti, che mettono in luce punti di vista diversi. Alla fine nessuno dei protagonisti sembra salvarsi davvero. L’unico modo per restare innocenti, quel giorno a Srebrenica, era morire?
Uno degli ostacoli nella stesura del testo è stato non subire il fascino del dilemma morale alla base delle scelte di Erdemovic al punto tale da dimenticare le conseguenze delle sue scelte: alla fine di quella giornata ha comunque ucciso più di 70 persone. La verità è che quel giorno a Srebrenica d’innocenti sono rimaste solo le vittime, non erano infatti innocenti i carnefici ma non lo erano neanche i caschi blu dell’ONU che sono rimasti a guardare fingendo di non capire cosa stesse succedendo.
(Srebrenica, continuano ancora oggi i ritrovamenti di fosse comuni.)
Il Giudice González è l’incarnazione del dubbio e della difficoltà della legge a trovare una soluzione definitiva, conciliare la pena con le contingenze storiche. Qual è oggi la situazione del processo? Quali passi sono stati fatti e quali sentenze definitive sono state prese?
Il caso Erdemović è significativo a livello della giurisprudenza del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia perché è il primo caso dove la difesa si è appellata a circostanze di eccezionale coercizione come attenuante. Il 29 novembre del 1996, Erdemović è stato condannato a 10 anni di carcere per omicidio come crimine contro l’umanità. È stato il primo a dichiararsi colpevole presso il tribunale ed è stato l’unico membro del suo battaglione a essere processato per crimini di guerra, mentre i suoi compagni di allora sono ancora ricercati. Ha fatto poi appello e la sua pena è stata ridotta a 5 anni nel 1998, accettando le attenuanti eccezionali. È stato quindi in prigione dal 28 marzo 1996 al 13 agosto 1999, quando gli è stata concessa la liberazione anticipata.
Ci sono poi Dirk, che fa parte dell’esercito olandese di stanza a Srebrenica, ed Erdemović, appunto, volontario nell’esercito serbo. Nelle loro parole e gesti tutta l’impotenza di fronte alla guerra, al male assoluto. Si resta immobili e non è possibile prendere decisioni definitive, si viene sconfitti. È anche questo il dramma dell’animo umano in ogni conflitto?
Molti autori hanno affrontato il tema della guerra sia per offrire una testimonianza sia perché, nella sua estremità, la guerra offre un punto di vista privilegiato sui comportamenti umani. L’individuo si trova ad affrontare una situazione che non può controllare e che mette in dubbio quello che pensa di sapere di se stesso. Ma il dramma non sta solo nei dubbi: è importante capire come sia stato possibile che una larga parte della popolazione abbia accettato di non porsi domande, annientando le capacità di giudizio in modo da uniformarsi a quello che era lo spirito del tempo.
(file di cadaveri a Srebrenica)
Nel libro fai dire a González che la Storia è l’insieme delle azioni dei grandi uomini, ma il motore sono i milioni di “piccoli” uomini, paure, ambiguità, decisioni o indecisioni. Anche Srebrenica è un pezzo di Storia creata dall’uomo. Quanto c’è dell’uomo in Srebrenica e quanto è stato o sarà importante questo avvenimento nella Storia europea e non solo?
Srebrenica è un monito per l’Europa che pensava che un genocidio non potesse più accadere: Srebrenica ci mostra quali siano le estreme conseguenze quando politici scoprono il vaso di Pandora del nazionalismo per servire i propri interessi. Srebrenica significa capire che le “parole di odio” possono tracciare confini invisibili tra persone che fino ad allora vivevano insieme pacificamente a tal punto da disumanizzare colui che da sempre è stato il tuo vicino.
Un avvenimento che, purtroppo, non tutti conoscono. C’è bisogno di Memoria per questi fatti troppo nascosti. Col tuo libro hai avuto il coraggio di raccontare, così come continuano a fare le Madri di Srebrenica. Quanto è importante narrare per ricordare e per resistere al tempo? E quanta strada c’è ancora da fare per “raccontare Srebrenica”?
Raccontare è importante perché permette di avvicinarci a storie lontane da noi e dalla nostra esperienza di vita. Il romanzo rimane uno strumento privilegiato dato che, per la sua natura stessa, assorbe il lettore completamente, lasciandolo in balia dell’autore. Credo sia impossibile raccontare un “abisso” come quello di Srebrenica fino in fondo. L’importante è quindi parlarne, non dimenticare, e sforzarsi di comprendere quello che non potrà mai esser compreso fino in fondo.
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E dopo questo libro, dopo aver raccontato la solitudine di ogni uomo di Srebrenica, Marco Magini ha vinto la “sua” solitudine?
Guardandomi indietro mi pare incredibile esser riuscito a portar a termine questo romanzo. Lo iniziai nel periodo successivo alla laurea per riempire vuoti nella mia vita, a livello personale e di aspettative riguardo all’ingresso nel mondo del lavoro. Non pensavo certo alla pubblicazione: inviai il manoscritto al Premio Calvino senza averlo fatto leggere quasi a nessuno, per avere un riscontro sul valore. Invece è seguita la finale, la menzione d’onore e la pubblicazione per Giunti. Se me lo avessero detto appena un anno fa non ci avrei creduto. Scrivere un romanzo richiede un tale impegno costante in un’attività così solitaria che non sono sicuro sia possibile farlo se ti trovi in un momento della tua vita dove ti senti appagato e felice. Serve una mancanza, soprattutto se si tratta di un’opera prima che difficilmente qualcuno prenderà in considerazione; e serve una storia, una storia che tu ritenga sia necessario raccontare.