Egokid – Troppa gente su questo pianeta

La via del pop all’italiana che propongono gli Egokid in Troppa gente su questo pianeta è un mix di melodie malinconiche, chitarre robuste e ritmiche marziali (post-punk) e un senso di crisi acutissimo. Dentro ci senti – più secchi, con meno languore e teatralità – gli aromi dei Baustelle, e non è un caso, ovviamente. Primo, perché Bianconi vuoi o non vuoi è un autore dalla scrittura decisamente originale. Secondo, perché Diego Palazzo, uno dei pilastri degli Egokid (assieme a Piergiorgio Pardo è l’autore di tutti i brani) ha fatto prima da turnista per la formazione fiorentina e poi partecipato alla composizione di un paio di tracce di Fantasma.

(gli Egokid)

Questo, però, nulla toglie a Troppa gente su questo pianeta, che è un album in grado di camminare con le gambe sue, impregnato da un interessante senso di impotenza, di tramonto di ogni possibilità residua, malinconicamente rassegnato. «In un’altra dimensione / Farei tutto con amore / Tutto per amare te / Ma qui non si può / Non si può più / Non è permesso», recita In un’altra dimensione, un pezzo scandito da un drumming tribale e da una progressione sconsolata più che drammatica. La malattia, le menzogne, la banalità: «è un mondo agghiacciante», e non se ne scappa. Il destino inevitabile è il tramonto: Il re muore lo racconta in maniera efficace, pennellando una delle melodie migliori del disco, una bella galoppata che conclude senza rimpianti, senza dolori, con la proclamazione di una specie di desolata libertà («Oggi non ho più bisogno / di un sovrano su di me»).

Nella parte centrale dell’album, si alternano i toni più delicati de L’alieno (l’ennesima sconfitta: l’uomo non sa amare, e l’amore del resto non “resiste all’eternità”) a quelli più grintosi di Solo io e te, che guarda al revival new wave degli ultimi anni. Nel complesso, però, è la fase del disco in cui cala la tensione iniziale. Rialza il ritmo Che tempo fa, bella vivace, ma è con Frasi fatte che arriva un altro momento notevole: fanno tutto tastiere, synth e piano, le cui trame, complici dei tamburi discreti, si sciolgono nell’abbraccio caldo del ritornello per raccontare la fine di una storia che «non ha più le parole» e sfuma via lentamente.

Non balliamo più gioca con Battiato e Bianconi, mescola temi come l’anestesia del capitalismo e l’edonismo stanco dell’epoca del riflusso in un pop elettronico perfetto per le discoteche. La malattia chiude l’album ispirandosi a La coscienza di Zeno di Svevo, lasciandoci con una cupa profezia che sa di liberazione, un antidoto alla claustrofobia del titolo dell’album, che allude a sua volta ad una condizione di stallo. Gli Egokid la raccontano a modo loro, con eleganza e indubbia forza evocativa. Un altro bel punto messo a segno da una realtà ancora troppo sottovalutata del panorama pop italiano.

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