Wild Beasts – Present tense

Se c’è un gruppo di musicisti in grado di fare musica decisamente sensuale, oggi, senza essere stucchevole (e senza che la sensualità sia sinonimo di lingua perennemente fuori dalla bocca – vero Miley?) quelli sono i Wild Beasts. Present tense, il loro quarto album, segna un’evoluzione intrigante sotto le insegne di un sound elettronico scarno, essenziale, ma decisamente sexy, anche nei momenti più malinconici.

Hayden Thorpe ha raccontato di aver concepito il disco nel suo nuovo appartamento londinese, con il suo laptop, circondato da «basi techno in stile Detroit ed elettronica varia». L’idea era quella di fare un album che raccontasse il presente – o meglio, l’essere (anche artista) nel presente, quella sensazione di fragilità che si prova al cospetto di una modernità che minaccia costantemente di inghiottirti. Il risultato sono tracce come Wanderlast, con beat e synth algidi, sfumature gotiche, un senso di melodramma ben dosato e versi chiave come «In your mother tongue, what’s the verb to suck?» che si sottintendono la questione della sincerità, della genuinità, nell’approccio all’arte.

Il tema politico è uno dei fili conduttori dell’album. Se in Wanderlast ci sono riferimenti alla lotta di classe, in Daughters si parla di uno scenario apocalittico (futuro) in cui «all the pretty children sharpening their blades». La capacità evidente dei Wild Beasts è quella di ricavare dai pochi mezzi in campo il massimo: Daughters sfrutta un bordone sintetico, dei beat e degli intarsi di tastiere per costruire un atmosfera via via sempre più opprimente e minacciosa, che culmina in un finale quasi imponente. Anche quando il baricentro tematico si sposta sul versante erotico, come in Mecca, il trucco è sempre ottimizzare al meglio i suoni: in questo modo, si trova spazio anche per un assolo di chitarra, seppur decostruito.

Il pop di Present tense è figlio della tradizione nobile degli anni ’80 e ’90, di Tears for Fears, Blue Nile, Talk Talk, ma gli stereotipi sono aggiornati all’era della crisi: dinamiche più dimesse e testi che riflettono smarrimento, precarietà, ricerca di stabilità (l’avvolgente A simple beautiful truth) e voglia di vivere appieno il presente (Past perfect, contesa tra arpeggi malinconici e chitarre funky).

(Wild Beasts)

Il finale, dopo la rinascita dolente evocata in New life (che ha la classe degli Elbow), è all’insegna di un senso di liberazione, con le trame romantiche di Palace le quali, tuttavia, conservano sempre una discreta sensazione tattile, incapaci come sono di astrarsi completamente, di farsi eteree. Present tense, insomma, è un disco testardamente aggrappato a quell’attimo fuggevole, a quel «godly state / Where the real and the dream may consummate» che chiamiamo presente. Una qualità rara al giorno d’oggi, e il paradosso è che un disco così, più di quelli che inseguono le effide mode dei revival, rimarrà.

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